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A proposito di Davis

a proposito locaSuccedono strane cose nel mondo, e in giro per i festival, e continueranno a succederne finché ci saranno registi come i Coen che, qualunque pellicola abbiano al loro attivo, incorrono puntualmente negli elogi di pubblico e critica. Non tutti i loro film sono interessanti, alcuni sono migliori, altri peggiori, altri ancora francamente inguardabili, ma ovunque sentirete odore di Coen, state certi che qualche mano si scorticherà in applausi sperticati, ed eserciti di indomite penne si leveranno a santificarne la presenza. Tutto questo per dire cosa? Che non si possono avere opinioni “a prescindere” su questi due simpatici ebrei di Minneapolis, che sorprendono, meravigliano e sbeffeggiano tanto lo spettatore quanto il giornalista; non si possono avere opinioni perché la critica è la prima a non averne, e l’unico modo per accostarsi al loro cinema è unicamente rifugiarsi in sala ed elaborare una propria visione personale.a proposito di 1

A proposito di Davis, Gran Premio della Giuria all’ultimo Cannes, è un libero adattamento del romanzo autobiografico di Dave Van Ronk, cantautore blues-folk degli anni sessanta divenuto celebre grazie soprattutto alla sua amicizia con Bob Dylan. La storia, molto semplice e lineare, è quella di un misconosciuto cantante (interpretato da Oscar Isaac) che girovaga senza fissa dimora per il salotto di amici, parenti e colleghi di suonate, nella speranza che qualcuno gli offra la grande occasione della vita: fare musica folk, guadagnare parecchi soldi e il riscatto da un’esistenza povera, difficoltosa e piena di stenti. Tutto qui, ma anche no. Nel senso che non si tratta di un film musicale, o se lo è, lo è soltanto in minima parte. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: la colonna sonora scelta dai due registi, e che fa da contrappunto al tono generale della pellicola con i suoi siparietti, le serate canterine al pub, gli occhiolini di complicità tra una birra e una schitarrata, è stimolante come un dito infilato nel sedere, un bubbone sotto l’ascella o trovate voi il termine di paragone che meglio vi rappresenti; e se conterà su qualche esegeta, sarà soltanto per la grazia di gusto degli ormai (fortunatamente) pochi superstiti del flower power, ancora capaci di farsi scendere la lacrimuccia di fronte alle barbe lunghe e alle vocine da eunuchi che intonano melodie spacciate per folk. Messa in questi termini, sembrerebbe un punto a sfavore della pellicola, eppure i Coen sono riusciti a fare un film musicale, nel senso che parla di musica, riguarda la musica, è intimamente legato alla musica, dove la musica non conta un piffero. Se non siamo nella genialità, poco ci manca. Sarebbe come girare un film erotico in cui si stimola il desiderio pur senza mostrare l’ombra di una tetta. Bravissimi i Coen, che dirigono un melodramma senza buttarla in tragedia, e che scrivono il copione con l’ironia soddisfatta che soltanto un giudeo sa mettere su carta. Parlando a tutti, a chi ama la musica, a chi la detesta, a chi crede di poter vivere senza mai ascoltare una canzone.

a proposito di 2Tutta la prima parte del film è continuamente giocata sulle fughe del gatto che i vicini altolocati di Davis, ricalcati un po’ sulle coppie ebree della Manhattan bene di Woody Allen, gli hanno affidato: il felino corre alla finestra, si inabissa per le scale antincendio, approfitta di uno spiraglio della porta per raggiungere la tanto agognata libertà. Lo spiantato protagonista gli sta dietro senza sosta, interrompendo la sgangherata conversazione a base di offese con l’amante Jean (Carey Mulligan), nonché fidanzata dell’amico Jim (Justin Timberlake), per gettarsi al suo inseguimento, inerpicarsi per androni di palazzi e agguantare la bestiola solo per scoprire che non è quella che andava cercando. Jim e Jean e il gatto degli ebrei. Sembra una barzelletta, d’accordo, ma è proprio questo elemento ad attivare l’attenzione di uno spettatore che altrimenti cadrebbe addormentato dopo i primi cinque minuti. La musica è lagnosa, di un senzatetto che dorme sul divano degli amici non gliene fregherebbe niente a nessuno, ma di un grosso gatto pasciuto che si dedica ai numeri del circo sì. Stessa cosa per i bizzarri personaggi di contorno, dal grassissimo John Goodman (qui conciato come Giuliano Ferrara), che stordisce chiunque con le sue caustiche frecciatine, agli insulti gratuiti che piovono sulla testa di Davis, il suo continuo senso di fallimento, le piccole, grandi epifanie che lo colgono sulla strada dell'(in)successo. E tutto questo è davvero bello e commovente, sopratutto a fronte di una cultura (italianissima) che ci ha abituati a leggere gli anni sessanta come un periodo di massimo splendore, dove la felicità era dietro l’angolo e bastava drogarsi pur di raggiungerla. I Coen svelano invece il lato oscuro di quell’epoca, precisando che la droga era droga allora come oggi, e che forse non bastava alzare il pollice in mezzo a una strada per farsi gratis le vacanze. A dimostrazione che nel mondo non è mai cambiato davvero nulla, e che dietro ogni presunta età dell’oro si nasconde sempre la sofferenza dell’individuo e la crudeltà della vita.

Marco Marchetti

A proposito di Davis

Titolo originale: Inside Llewyn Davis. Regia: Joel e Ethan Coen. Sceneggiatura: Joel e Ethan Coen. Fotografia: Bruno Delbonnen. Montaggio: Joel e Ethan Coen. Interpreti: Oscar Isaac, Justin Timberlake, John Goodman, Carey Mulligan, Garrett Hedlund. Origine: USA. Anno: 2014. Durata: 104 min.

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