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Berlino 2013: consuntivo a mente fredda

Un buona edizione, la 63° del Festival del film di Berlino. Un’edizione forse senza grandi acuti che ha però confermato le linee che hanno ispirato la manifestazione, la terza in Europa dopo Cannes e Venezia, negli ultimi anni.
Attenzione ai temi sociali e ai paesi del sud e dell’est del mondo, quelli così difficili da ritrovare nelle sale cittadine (e ancor più nelle multisale), ma anche attenzione al pubblico, soprattutto berlinese, al glamour, ai nuovi talenti e agli operatori del mercato.
childUn festival sempre più articolato e quasi modulare, dove ciascuno si costruisce propri percorsi. Non un tritatutto come Cannes, non una kermesse quasi elitaria come Venezia, ma un vero festival cittadino, disperso in molti luoghi della città pur con il cuore a Potsdamerplatz.
L’est Europa si è confermata terra di film premiati. I due riconoscimenti maggiori sono andati alla Romania e alla Bosnia, addirittura due. Orso d’oro a Child’s Pose di Calin Peter Netzer, film che conferma la bontà della scuola romena e che era tra i favoriti della vigilia, in un buon festival ma non di livello eccezionale. Il rapporto tra una madre assillante, Cornelia (una strepitosa interpretazione di Luminita Gheorgiu), e un figlio trentenne colpevole della morte di un bambino in un incidente stradale.
Orso d’argento e migliore attore (Nazif Mujc) a An Episode in the Life of an Iron Picker di Danis Tanović. Il premio Oscar di No Man’s Land ha raccontato la vicenda vera, interpretata dai protagonisti reali, di un rom che cerca disperatamente di aiutare la moglie che ha avuto un aborto spontaneo e necessita un’operazione ma è priva di copertura sanitaria. Migliore attrice è stata scelta la cilena Paulina Garcia per Gloria di Sebastian Lelio, forse la pellicola più applaudita. Una donna di mezz’età cerca ancora l’amore e non si arrende quando si innamora di un uomo troppo pressato dall’ex moglie e dai figli.
La giuria presieduta da Wong Kar-Wai ha premiato quasi tutti i film più meritevoli del concorso: tra i migliori rimasti fuori dagli Orsi il thriller Side Effects di Steven Soderbergh e soprattutto il bergmaniano Camille Claudel 1915 di Bruno Dumont.side
Pardé – Closed Curtains degli iraniani Jafar Panahi e Kamboziya Partovi ha avuto l’Orso per la miglior sceneggiatura. Panahi, già Leone d’oro a Venezia con Il cerchio, è da due anni condannato per ragioni politiche a non girare film e non uscire dal suo Paese. Dopo This is not a film girato di nascosto, stavolta il regista ha aggirato il divieto filmando tutto dentro una villa una storia metaforica e metacinematografica della quale è anche interprete. Un originale kammerspiel sulla reclusione in un luogo dove pure i cani sono fuori legge.
Classica commedia indipendente americana è Prince Avalanche con Emile Hirsch, che ha fruttato a David Gordon Green l’Orso d’argento per la miglior regia. Un film carino e forse meno: meglio non fare confronti con l’islandese Either Ways, che vinse il Festival di Torino nel 2011, di cui è il remake. Del resto la pattuglia in gara era completata dal Gus Van Sant sotto tono di Promised Land e da The Necessary Death of Charllie Countyman di Fredrik Bond.
Il premio per il miglior contributo artistico è andato al direttore della fotografia Aziz Zhambakiyev per il kazako Harmony Lessons del debuttante Emir Baigazin, una delle poche vere scoperte della Berlinale. Una vicenda di bullismo e mafie in miniatura in una scuola della steppa, Aslan è un adolescente che ha subito un’offesa e cova vendetta. Violenza pronta a esplodere pure nell’originale Vic+Flo on vu un ours di Denis Cote, premio Alfred Bauer per l’innovazione.
Tra i fuori concorso da ricordare Before Midnight, terzo capitolo della saga romantica diretta da Richard Linklater con Ethan Hawke e Julie Delpy nei panni di Jesse e Céline. Uno scrittore americano e un’attivista dei diritti civili francese che ogni nove anni hanno un appuntamento amoroso: conosciutisi a Vienna in Prima dell’alba e ritrovatisi a Parigi in Prima del tramonto, sono alle prese con una crisi di coppia durante una vacanza in Grecia. Ora vivono insieme e hanno due gemelle, ma l’uomo vorrebbe portare tutti a Chicago per vivere con il figlio avuto dalla prima moglie. Ci sono i marchi di fabbrica: lunghi dialoghi brillanti sull’esistenza, il mondo, la politica (c’è persino una tavolata con amici greci a discutere della crisi economica) e schermaglie d’amore in quantità. Ma forse stavolta ci sono meno invenzioni rispetto ai precedenti.
grandmasterE naturalmente il sontuoso melodramma tra un colpo e l’altro di kung-fu The Grandmaster di Wong Kar-Wai, che aveva inaugurato la rassegna. Forse il film più bello, che da un lato spiazza i fan del regista hongkonghese, dall’altro lo conferma – e in una veste rinnovata (cita persino C’era una volta in America con le musiche di Ennio Morricone) – come uno dei grandi di oggi. Una storia a cavallo dell’occupazione giapponese e della seconda guerra mondiale, che si svolge su parecchi anni, seguendo la rivalità e l’amore tra una donna figlia di un maestro d’arti marziali (splendida Zhang Ziyi) e un uomo di un’altra scuola di kung-fu (Tony Leung). Ralenty, immagini come dipinti, momenti di puro sentimento, di strazio, amore, malinconia e più dolore che gioie. Ma per gli occhi dello spettatore è puro piacere.

Nicola Falcinella

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