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Berlino 64: al via con Wes Anderson

Meno empatico e meno compatto di Moonrise Kingdom. Wes Anderson ha inaugurato ieri sera il 64° Festival del cinema di Berlino (fino a domenica 16) con il nuovo The Grand Budapest Hotel. Un lavoro che conferma il suo talento ma segna pure un passo indietro rispetto al suo film precedente, finora il vertice di una carriera quasi quindicinale che l’ha portato a essere uno dei più amati tra le ultime generazioni di cineasti. Il nuovo è un film piacevole, divertente, molto curato ma meno armonioso, profondo e folgorante della storia dello scout GBH Andersoninnamorato durante la tempesta perfetta. Stavolta siamo in un grande albergo mitteleuropeo, in una località fantasiosa sui monti Sudeti, tra il 1932 e la Seconda guerra mondiale. Trattandosi di storie una dentro l’altra, ci sono due prologhi, rispettivamente nel 1985 e nel 1968. Nel primo una giovane lettrice visita il monumento a uno scrittore, nel secondo, che in ordine cronologico viene prima, l’autore (Jude Law) intervista uno dei protagonisti (F. Murray Abraham) della storia al centro del film. È l’amicizia tra un leggendario portiere d’albergo, Gustave (Ralph Fiennes, perfetto) e un ragazzo d’origine indiana, Zero (Tony Revolori), che inizia a lavorare nell’hotel. Dopo la diffidenza iniziale, i due diventano amici per la pelle, anche perché gli eventi li costringono a stare insieme. Gustave è un portiere d’altri tempi che conosce tutti i clienti e le loro esigenze e riesce sempre ad anticipare le richieste. La morte improvvisa di Madame D. (una sorprendente e indimenticabile Tilda Swinton invecchiata), alla quale era molto legato, sconvolge tutto: una modifica testamentaria devolve a Gustave un prezioso quadro fiammingo scatenando l’opposizione del figlio e della famiglia. Il portiere e il ragazzo sottraggono il dipinto provocando una serie di fatti che coinvolgono molti personaggi, da un cuoco all’investigatore. Il film ha diverse trovate (tra le migliori le telefonate in serie tra gli alberghi) e ritmo, ma fatica a prendere quota, effetto della costruzione narrativa molto complessa. poster andersonStavolta Anderson cerca una struttura più ambiziosa a scapito forse del contenuto e prova a cambiare il suo stile: pur continuando con immagini molto riconoscibili, usa meno il suo caratteristico carrello laterale. L’ottavo film lo conferma regista dai colori pastello, dal grande lavoro di scenografia, grande cura di facce e di attori (tra i tanti ci sono Mathieu Amalric, Lea Seydoux, Willem Defoe, Adrien Brody, Edward Norton e Bill Murray in un ruolo brevissimo) e dal tocco personale. C’è sempre tanta attenzione alle stranezze, ai tipi umani, ai tic, ai dettagli. La guerra resta un po’ sullo sfondo, anche se l’albergo è occupato da militari con la “ZZ” e cambiano i governanti e le guardie ma gli straneri sono sempre presi come bersaglio e discriminati. Per chi si aspettava la conferma della crescita di Anderson e il suo passaggio definitivo tra i grandi una piccola delusione, chi si vuole godere un bel film zeppo di citazioni e riferimenti al cinema del passato (da Renoir a Bresson) e di oggi troverà ciò che cerca. Su tutto ci sono i costumi di Milena Canonero e le musiche perfette composte da Alexandre Desplat, probabilmente il più ispirato compositore per il cinema in circolazione. Oggi inizia il concorso con l’inglese 71 di Yann Demange su un episodio di scontri a Belfast nel 1971, Jack del tedesco Edward Berger e La voie de l’ennemi di Rachid Bouchareb. Tra i 20 in gara non ci sono italiani: dopo l’Orso d’Oro di Cesare deve morire dei Taviani non c’è più stato nessun film tricolore in competizione.

da Berlino, Nicola Falcinella

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