Cannes 2017

Cannes 70: il Concorso al giro di boa

È un Festival di Cannes per registi che tendono a manipolare e soffocare lo spettatore. Giunti a circa metà del concorso della 70° edizione, si può, se non fare un bilancio parziale, riconoscere una tendenza evidente: registi che, salvo eccezioni, sono portati a imporre visioni, non concepire mezze misure, usare le metafore come clave. Che sia il gusto del direttore Thierry Fremaux, che in altre situazioni ha fatto capire di amare un cinema diverso, o che prevalgano ragioni superiori, la manifestazione mostra segni di stanchezza. Combatte la doverosa e giusta battaglia contro Netflix, e chi usa la forza della giungla internettiana per abbattere la settima arte, da posizioni di debolezza, retroguardia é probabilmente destinate a perdere.

The Killing of a Sacred Deer
The Killing of a Sacred Deer

Una selezione finora non esaltante (le speranze ora sono soprattuto in Naomi Kawase con Hikari, Sofia Coppola con The Beguiled e Sergei Loznitsa con A Gentle Creature), affollata di opere programmatiche e senza guizzi, proprio nell’anno di un’apertura a nomi diversi dai soliti noti obbligati al concorso. Forse autori come Garrel, Ferrara e Gitai (nella Quinzaine) o Polanski (fuori concorso sabato a chiudere) avrebbero fatto bene alla competizione: vecchi anagraficamente, ma più giovani e “sprintosi dentro” dei loro figli e nipoti. Con giurati come Maren Ade (Toni Erdmann), la giuria sembra fatta apposta per laureare uno di questi autorini già viziati – su tutti The Square dello svedese Ruben Ostglund e The Killing of a Sacred Deer del greco Yorgos Lanthimos – che per stupire sembrano un po’ prendere in giro lo spettatore, usano tanti registri senza possederli bene e utilizzano in modo inappropriato una violenza sessuale davanti ad astanti immobili o una sparatoria, quasi roulette russa, verso i familiari.
Alla fine Les fantomes d’Ismael di Arnaud Desplechin, messo fuori gara in apertura di festival e accolto con poca generosità il primo giorno, è meglio di quanto si è detto e, pur con i suoi sbilanciamenti, si difenderebbe bene tra le pellicole in competizione.
Per uno sguardo superficiale potrebbe appartenere al filone impositivo pure Michael Haneke con Happy End, ma il regista austriaco, unico in gara che ha già vinto la Palma (in realtà due, per Il nastro bianco e Amour), ha troppo talento e maestria per cascare in queste trappole. La sua visione rigorosa e netta è così complessa da offrire allo spettatore molteplici stimoli, anche se, come in Amour, si parla ancora di morte e il nichilismo abbonda. Haneke osserva le tre generazioni della sua complicata e ricca famiglia di imprenditori Laurent come un entomologo, non ripete gli indizi, fornisce tanti elementi che chi guarda deve collegare e ricomporre, usando anche immagini da telefonini, chat e uno sguardo in camera che resta impresso.

Wonderstruck
Wonderstruck

L’altro fuoriclasse Todd Haynes, si è confermato ad alti livelli anche se forse non agli altissimi (I’m not there, Carol) che gli sono abituali. Con Wonderstruck, tratto dal libro di Brian Selznick, lo scrittore di Hugo Cabret, si cimenta con una favola in due tempi, una nel 1927 e una nel 1977. Due storie che finiranno con l’incrociarsi nel Museo di storia naturale di New York, dove finalmente scatta la magia. Haynes omaggia il cinema muto, regala a Julianne Moore due piccoli ruoli magnifici, danza tra i plastici, fa della metropoli il luogo dei sogni e mostra i più teneri dialoghi tra sordi che si possano immaginare.
Montatore e cosceneggiatore di Laurent Cantet è Robin Campillo, che con 120 battements par minute porta un film militante (ma non troppo) e toccante sull’Aids, ambientato a fine anni ’80. Un lavoro forse un po’ lungo e troppo verboso nella prima parte, che parte assembleare e diventa intimo. Il cuore fa perdonare qualche difetto e il gruppo di attori funziona molto bene. Non male Loveless – Nelyubov di Andrei Zvyagintsev, anche se non tra i suoi migliori: un’altra critica alla società e alla politica russa, dell’avidità e della mancanza d’amore, un film compatto e ben scritto ma senza le trovate e la forza di Leviathan o le sfumature e la profondità dei personaggi di Elena.
È una commedia che si vede volentieri Geu-Hu – The Day After di Hong Sang-Soo, il prolifico regista coreano che sembra fare sempre lo stesso film, che si muove alla Rohmer tra amori, equivoci, arte (stavolta il protagonista è un editore), casi del destino, ripetizioni e variazioni sulle situazioni quotidiane. Hong stavolta usa il bianco e nero per fissare con leggerezza un uomo fra tre donne, con una moglie gelosa, una ex che ricompare e una nuova dipendente che si trova subito troppo a suo agio. Sul terreno della commedia si muove a suo agio anche Noah Baumbach, un altro dal marchio ben riconoscibile e dal ritorno frequente sugli stessi temi. Stavolta il regista newyorchese sembra fare un passo più ambizioso con The Meyerowitz Stories, vicenda familiare e intergenerazionale con i componenti di una tradizionale quanto bizzarra famiglia ebraica nella quale tutti hanno problemi di deambulazione o postura, con Dustin Hoffman padre artista ancora con la voglia di un’affermazione tardiva.
Nella parte bassa della classifica anche la poco ispirata favola ecologica Okja del coreano Bong Joon Ho (Snowpiercer) e Jupiter’s Moon di Kornel Mondruczo (già premiato a Cannes per Delta, uno cui non manca la capacità di messa in scena elegante e potente), che racconta un’Ungheria corrotta e violenta che rifiuta i migranti ma con il suo profugo zombie va verso la furbata effettistica.

da Cannes, Nicola Falcinella

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