Locarno 2015

Cronache da Locarno68: 7 agosto

loc1Mentre noi giornalisti veniamo trattati come cani (quest’anno il buffet della press lounge è stato mutilato dei panini: restano soltanto succhi e caffè, neanche le briciole), sulla passerella del festival scorrono alcune pellicole intelligenti come Brat Dejan di Bakur Bakuradze. Il protagonista è un ex criminale di guerra serbo che da quindici anni vive sotto falso nome: trascorre le giornate a caccia nei boschi, si guarda bene dal frequentare luoghi affollati, si nutre dell’omertà di parenti e conoscenti. La sua è ormai un’esistenza monastica, priva di identità, racchiusa tra le sicure pareti dell’isolamento, ogni settimana uguale all’altra, il nulla davanti a sé. Fin qui niente di strano, tranne che il punto di vista diventa quello del carnefice che non necessariamente cerca redenzione. E meno male, verrebbe da dire: dopo tanti film sui buoni, sulle vittime, sugli innocenti immolati all’altare della patria, finalmente una riflessione su chi la guerra l’ha persa, e ne subisce giorno dopo giorno le conseguenze. Il montaggio è quello del cinema d’autore, che piace a pochi, infastidisce molti: ritmi lentissimi, inquadrature ravvicinate, un volto segnato dal tempo, dall’età, dalla disperazione che diviene metafora di una condizione dell’anima: la dannazione. Ma non la dannazione religiosa, che sembra c’entrare poco con il retroterra ateo e socialista dei Balcani, ma quella morale, ovvero la condanna perpetua alla solitudine, alla rinuncia degli affetti (il nostro incontra la moglie soltanto una volta in tre lustri, e il figlio dopo un percorso tortuoso in mezzo ai boschi, con tanto di sicurezza e telefonini spenti). Anche i carnefici soffrono, anche i carnefici diventano martiri delle proprie colpe. È dai tempi di Tras el cristal (1986) di Villaronga che non si vedeva tanto coraggio. Punto di forza? La musica: ieratica, classica e profana al tempo stesso, parte in sordina con un pizzicore di basso e deflagra all’incontro con il destino.

loc2 bisDall’Argentina ecco un altro gioiello: El Movimiento, di Benjamin Naishtat. Siamo nella prima metà del diciannovesimo secolo, ci sono i cowboy brutti, strafottenti e lazzaroni; c’è la pampa, c’è il deserto, c’è una cappa onnipresente di morte. Formato 4:3, roba che usano soltanto gli intenditori, bianco e nero d’autore, oscurità e lumi di candela che rischiarano volti proletari. È Caravaggio che incontra Guy Maddin, il formalismo che si confonde con lo sperimentale. La storia è quella di un predicatore politico psicolabile, diabolico e manipolatore, che pian piano ottunde le menti dei poveri abitanti con la sua fervente professione di fede: aggregare le masse in un Movimento che, benché privo di programma, regole interne o obiettivi ideologici, miri al conseguimento del bene comune. Il predicatore non fa sconti a nessuno: corrompe e lusinga, accarezza e seduce. Ma quando la corruzione nulla può contro l’onestà e la rettitudine, taglia gole e fracassa teste a cannonate.

loc3Dal Belgio una piacevole sorpresa, e a guardare la trama non c’era neanche da aspettarselo. Keeper, di Guillaume Senez, omaggia un po’ i fratelli Dardenne e tutto quel cinema sociale che ha il grande merito di scavare sotto la superficie apparentemente impeccabile del welfare settentrionale. Non è mica vero che da quelle parti tutti stanno bene, sono contenti e lo stato soddisfa ogni primario bisogno del cittadino. No, non stiamo parlando dei casi borderline, ma di una vicenda assolutamente quotidiana: due ragazzini appena adolescenti si innamorano e ci scappa il bambino. La madre di lei dà in escandescenze e vuol fare abortire la figlia. Lei invece si incaponisce e comincia la lotta per tenersi (da qui, appunto, il titolo) il povero nascituro. E il padre, invece? Ecco, il padre è un ragazzotto biondo e magrolino che pensa semmai a fare il calciatore. Il che getta benzina sul fuoco, ma alla fine sembra che sia proprio lui a mettere la testa a posto e ad assumere le ingombranti responsabilità di padre. Peccato che il Belgio sia davvero spietato in materia, e quando si tratta di minorenni è il tribunale a dettare legge. La questione che pone Senez è in buona sostanza morale, ed è una questione ambigua, a cui non c’è soluzione se non forse quella paventata dalle contraddittorie leggi: è giusto che i servizi sociali sottraggano un bambino alla custodia dei genitori soltanto per la presunzione che essi non siano abbastanza maturi per allevarlo? Chi lo stabilisce, come? La scena più bella è quella in cui l’assistente sociale chiede al futuro padre per quale ragione voglia tenersi il bambino anziché darlo in adozione; lui risponde: “Perché è mio figlio”. E l’altro: “Non basta. Devi argomentare meglio…”

loc4La prima mezza porcheria della giornata è The Waiting Room di Igor Drljaca, specie di coproduzione canadese bosniaca. Il senso del film è già nel titolo: si aspetta che succeda qualcosa. Un attore immigrato in Canada dalla Bosnia va in giro a fare alcuni provini: si veste da donna, fa il comico al cabaret, parla coi figli, racimola soldi per arrivare a fine mese. Non è un grande attore, non lo sarà mai, non lo vuole essere. Bastava girarci un cortometraggio di cinque o dieci minuti, e il concetto era chiaro lo stesso.

loc5Uno dei papabili del palmarès sembra invece Sulanga gini aran (Dark in the White Light) di Vimukthi Jayasundara, Sri Lanka. Si tratta di un film corale, che mette a confronto la vita di un monaco buddista, che vive isolato in mezzo alla natura sotto l’egida di un saggio e anziano maestro, con quella più “peccaminosa” di alcuni abitanti di città, immersi nel traffico, nel vizio e nella turpitudine morale di chi ha abiurato il timor di Dio. Qui seguiamo la vicenda di un medico stupratore che, insieme a un’infermiera e al fratello di lei, aiuta i poveracci a vendere i propri reni per appianare i debiti. È tutto un conseguimento di violenze, cattiverie, corpi squadernati in obitori notturni, un tizio finisce accoltellato, un altro si dà fuoco schiacciato dalle proprie colpe, ma il massimo lo si raggiunge quando il dottorino porta via il rene a una ragazza mentalmente instabile e, non contento, la violenta poco dopo l’operazione. Si può essere più cattivi?

loc6Ecco poi il nostro Andrzej Zulawski con il tanto atteso Cosmos. Chatrian ha avuto coraggio, bisogna riconoscerglielo, e l’ha messo in concorso sfidando il senso del ribrezzo e della vergogna. Ma nessuno dice mai niente a quest’uomo quando va a fare il cercatore di funghi per il mondo? Va bene che stiamo parlando del regista di Possession (1981), va bene che si tratta di un nome famoso e altisonante, va bene il gusto della provocazione, ma anche all’indecenza c’è un limite. Un ragazzotto dalla faccia spiritata corre gaio per il paese: riprese degne di una fiction Rai, fotografia da Dario Argento fase terza età, mancava soltanto Don Matteo in bicicletta e c’era da ridersela. Ah sì, c’è anche il sottofondo di musichetta spensierata. Il giovane imbocca un sentiero e trova un uccello impiccato: lo accarezza, lo prende in mano, lo titilla tra lo schifato e l’incuriosito, e a un certo punto… cucù, l’uccello non c’è più. Al suo posto un pollo spennato. Quindi chiede ospitalità a una pensione gestita da una famiglia di ritardati mentali (tra cui Sabine Azéma: come ti sei ridotta, cara Sabine, tu che recitavi con Alain Resnais) dove tutti urlano, cantano e piangono senza pietà. Non c’è un motivo preciso, ogni famiglia è fatta a modo suo e questa passa il tempo a usurare le corde vocali. Arriva la domestica dalla bocca deforme. Il ragazzo le chiede se c’è un ingresso sul retro. Lei risponde che sì, c’è, ma prima bisogna passare dal giardino: la porta è in fondo… D’accordo, direte voi: c’è del Carmelo Bene, c’è la citazione colta, c’è l’anarchia surreale dei bei tempi andati… E allora perché metterci dentro Tolstoj e Sartre a tutti i costi? Il risultato è comunque Alvaro Vitali che scoreggia in rima…

loc7Altra rivelazione (horror) della kermesse: Der Nachtmahr di un certo Akiz, tedesco già nominato all’Oscar per il suo film di diploma e che poi credevamo perdutosi per strada. Der Nachtmahr, cioè l’incubo, è una storia strana, surreale, girata e montata con una sapienza registica davvero manualistica. Qui ci sono delle ragazzine un po’ troiette, vestiti microscopici, selfie con le facce stralunate, qualche riga di coca e tanta tanta musica truzza. Parliamo di rave party: gente che sballa, feste in piscina, corpi sudati che ancheggiano come fa la gente che ama il momento e che non pensa al domani. È tutto un continuo vedere culi, culi e ancora culi. L’Antonia, che è la protagonista, si reca a fare pipì in un boschetto (scena abbastanza esplicita, grazie Akiz), e la pipì che scorre verso le fronde risveglia una cosa brutta e pigolante. La cosa (in realtà una specie di feto cresciuto e tutto sommato anche abbastanza socievole) gira per casa sua di notte, apre il frigorifero e mangia tutto quello che trova. La ragazzina avvisa i genitori che la mandano in terapia costringendola a prendersi delle altre droghe (queste legalissime) che però peggiorano la situazione. Sembra un horror psichiatrico, ci sono tutti gli elementi della situazione: la casa dall’arredamento perturbante nel suo minimalismo, la grande scala che unisce tre piani, retaggio evidente del cinema espressionista, l’oscurità dell’inconscio da cui scaturiscono i mostri… Poi però il mostro lo vedono pure i genitori. Il problema è che i due sono legati da una impalpabile comunione di sangue, cosicché se il corpo della creatura viene bastonato, ferito o tagliato, le conseguenze del trauma si ripercuoteranno sul fisico della ragazza. Il finale è un mistero, ma forse no.

loc8La programmazione di Piazza Grande è come sempre discontinua: Der Staat gegen Fritz Bauer di Lars Kraume ricostruisce in modo estremamente dettagliato tutti i retroscena della cattura di Eichmann. Cioè quei fatti che ai tempi di Hannah Arendt ancora non si sapevano, ma che divennero di pubblico dominio dieci anni dopo la morte di Bauer. Ma chi era costui? Un procuratore, figura imponente della Germania ovest, perseguitato perché ebreo durante il regime hitleriano, incaricato di scovare i nazisti dopo la caduta del Reich. Siamo negli anni cinquanta: la Germania federale è una pentola di merda, le autorità parano le spalle agli ex nazisti e tentano di reinserirli nel “mondo del lavoro”. Politica di riappacificazione, la chiamano. Bauer (Burghart Klaussner, il pastore de Il nastro bianco) non ci sta, lui che è doppiamente diverso, perché giudeo e omosessuale in un periodo in cui gli omosessuali finiscono ancora in galera. Il suo assistente è gay pure lui (si riconoscono dai calzini, colorati e divertenti), a un certo punto un bellissimo travestito mostra il pene e allora capiamo che alla base del film c’è tutta una sottotrama di ricatti sessuali. L’intelligence tedesca tiene in scacco le mosse politiche di Bauer, assetato di verità e giustizia, ma Bauer tenta di fare il furbo e regala al Mossad ogni scottante informazione su Eichmann, all’epoca latitante in Argentina. Eichmann deve andare a Israele, così come la giustizia al popolo ebreo e la verità sui crimini della Germania al mondo intero…

loc9L’evento più atteso era forse Southpaw di Antoine Fuqua, regista di The Equalizer (2014) e Training Day (2001). Tutto merito di quella locandina in cui Jake Gyllenhaal appariva arrabbiatissimo e sotto steroidi, per non parlare della faccia pesta, rotta e sanguinante. Peccato che la ciambella sia uscita senza buco; anzi, di buchi ne ha forse fin troppi. Che dire? Un vasetto di miele talmente appiccicoso da far vomitare persino la D’Urso. All’inizio hai Gyllenhaal nelle vesti di un pugile ricchissimo, viziato ma con una famiglia perfetta: una bambina super intelligente, una moglie super bella, super brava, super tutto, una di quelle cose che non esistono se non nelle fantasie adolescenziali di Odeon tv. Poi la moglie viene colpita da un proiettile durante una festa di beneficenza, quelle occasioni in cui gli americani benestanti fingono di volersi bene e si puliscono la coscienza reinventandosi filantropi. Lei si accascia, lui anche; lui urla, piange e le dice che tutto andrà bene, lei sa che sta per andare al creatore e rende la dipartita decisamente più melodrammatica. Musica a tema, dolore e morte prolungati per cinque minuti buoni. Le cose vanno comunque di male in peggio, perché il nostro pugile perde di colpo tutti i suoi milioni (e come fa?!), la custodia della figlia (ma perché?) e la propria dignità di uomo. Subito arriva Forest Whitaker a salvarlo dall’oblio, ma la scena in cui il tribunale cattivo separa il padre dalla figlia resterà per sempre negli annali della tragedia: i due si vogliono abbracciare, ma per qualche ragione che papà non sa spiegare, quei birboni degli assistenti sociali maltrattano l’adulto e allontanano con forza il minore. Fuqua non pensa, non ragiona, non concepisce: fa le cose in fretta e furia, troppo interessato ai muscoli viscosi del suo pugile-martire per regalarci l’ambiguità morale di un Foxcatcher. È tutto prevedibile, in Southpaw, già visto, banalizzato, strumentalizzato per un pubblico dalla lacrima facile.

Da Locarno, Marco Marchetti

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