FestivalMonDoc

Dalle Giornate di Soletta agli svizzeri da Oscar

La Svizzera del cinema attende con più trepidazione del solito la notte degli Oscar. Tre candidature rappresentano un evento storico, anche se in James-Baldwin__05un caso, I’m not your Negro di Raoul Peck nella cinquina dei documentari, si tratta di una coproduzione di minoranza. Gli altri candidati sono La mia vita da zucchina, come miglior film di animazione e La femme et le TGV, tra i cortometraggi.
La Svizzera ha vinto l’Oscar per il film straniero due volte: nel 1985 Mosse pericolose di Richard Dembo con Michel Piccoli, Liv Ullmann e Leslie Caron e nel 1991 con Reise der Hoffnung – Il viaggio della speranza di Xavier Koller, già Pardo di bronzo al Festival di Locarno 1990 e coprodotto dall’italiano Enzo Porcelli. Il bel La mia vita da zucchina – Ma vie de courgette scritto da Claude Barras con Céline Sciamma dall’omonimo libro di Gilles Paris e coproduzione con la Francia, ha qualche chance di premio, anche se gli avversari, i due Disney Zootropolis e Oceania e, soprattutto, Kubo e la spada magica (che ha le musiche dell’italiano Dario Marianelli) sono rivali di valore. Un po’ insolito, ma diventerà probabilmente più frequente, c’è un’altra animazione non americana in lizza, il franco-belga-giapponese La tartaruga rossa di Michael Dudok de Wit. Entrambi, La mia vita da zucchina e La tartaruga rossa, sono passati da Cannes (Quinzaine des realisateurs) dove sono stati accolti con molto favore: il primo è già uscito in sala in Italia, l’altro arriva tra poche settimane.
La piccola sorpresa è la nomination per il corto La femme et le TGV del ventisettenne Timo von Gunten con Jane Birkin, storia tra una donna sola e un conduttore del treno ad alta velocità. La giovane promessa del cinema elevetico, che si è fatto notare da giovanissimo, ha già all’attivo un lungometraggio. Si tratta di Le voyageur con protagonista Julie Dray, interprete anche de La femme et le TGV, presentato alle 52° Giornate 52° Giornate cinematografiche di Solettacinematografiche di Soletta a fine gennaio.

Lo storico festival nazionale, che offre anteprime ma anche un quadro della produzione svizzera, ha fatto registrare 65.000 presenze in sala confermando il proprio ruolo per il pubblico svizzero tedesco e romando oltre che per gli addetti ai lavori. Un’edizione buona ma che ha risentito del fatto che i prodotti migliori erano già passati in altre rassegne. Come sempre tanti film e un panorama molto completo. Il Premio Soletta, tra i dieci in lizza, è andato per la prima volta a un’opera di finzione, Die göttliche Ordnung di Petra Volpe. Un film collocato nel 1971 che racconta, in forma di commedia, un passaggio importante della vita politica, le prime elezioni cui furono ammesse le donne. Una giovane madre che vive in un piccolo villaggio comincia a impegnarsi attivamente mentre si avvicinano le consultazioni. Protagonisti sono Marie Lewenberger e il tedesco Maximilian Simonischeck, che era Bachmann nel kolossal Gotthard di Urs Egger. Il premio del pubblico è andato al documentario Docteur Jack di Benoit Lange e Pierre-Antoine Hiroz sull’impegno del dottor Jack Preger, che oggi ha 84 anni e ancora si alza tutte le mattine per salvare vite nelle strade di Calcutta.
Von Gunten con le sue due opere, presentate proprio nei giorni dell’annuncio delle nomination, è stato protagonista. È sicuramente una speranza TGV_FINAL_TIMOper un movimento vario, articolato, con una produzione ricca di titoli e registi anche interessanti ma dove manca un capofila e una figura di grande caratura internazionale. Dopo la grande stagione degli anni ’70 e ’80 dei Tanner, Murer, Goretta, Hermann, Schmid, Sutter, Dindo e così via, nessuno ha più avuto quella visibilità e riconoscimento o la continuità per diventare punto di riferimento per il movimento: dopo il Pardo d’oro con Das Fräulein nel 2006, la svizzero-serba Andrea Štaka ha fatto seguire solo il meno convincente Cure – The Life Of Another. Von Gunten ha sicuramente talento, sia registicamente sia come narratore. Le voyageur gioca nel titolo tra la sonda spaziale Voyager e il viaggio che deve compiere la protagonista Virginie. Siamo tra una fantascienza intimista e povera, ma non sciatta, e il road movie. Mentre si assiste a strani fenomeni dovuti all’atteso ritorno sulla Terra di un Voyager (entrambe sono state lanciate nel 1977 e sono ancora in viaggio nello spazio), previsto con atterraggio in Bulgaria, la giovane su un treno incontra il padre scomparso da anni. Partirà per un viaggio fino alla cittadina bulgara di Dolni Rakovec e poi ancora, nella memoria, dentro sé stessa, alla ricerca della figura paterna, nel tentativo di superare il lutto. Tutto nel ricordo della vecchia promessa fattale dal padre direttore d’orchestra di tenere un concerto in teatro tutto per lei con musiche di Mozart (Requiem – Lacrimosa). Un film di atmosfere, curato, di pochi elementi ma non mininalista.
Nel panorama della finzione, non esaltante e che risente purtroppo dell’influsso delle televisioni nazionali (benemerite nel sostenere le produzioni, quasi letali nell’appiattire stile e gusto), qualche merito là 7 giorni di Rolando Colla (Giochi d’estate). Un uomo e una donna, Ivan e Chiara (Bruno Todeschini e Alessia Barela) sull’isola di Levanzo per preparare il matrimonio del fratello di lui, Richard, e dell’amica di lei, Francesca. Sovrintendono i preparativi, cercano il coro e i musicisti, preparano il letto dentro il faro dove gli sposi dormiranno e cercano di esaudire tutti i loro desideri, in attesa dell’arrivo della coppia e degli invitati. Tra i due nasce un’attrazione, anche se entrambi sarebbero impegnati ma non lo confidano. Ivan è cinico, teorizza che gli amori finiscono e che lui lascia prima di perdere, così vorrebbe vivere la storia di pochi giorni e poi lasciarsi, ma Chiara non è molto d’accordo. L’autore italo-svizzero con la sua regia nervosa ed empatica riesce come sempre a cogliere alcuni bei momenti: il ritorno dal faro in bicicletta con i due che si fermano a baciarsi, il dialogo di Ivan con la vecchia tradita dal marito tante volte, il matrimonio in barca con i canti e il finale. È molto percepibile la tensione amorosa tra i due protagonisti e il paesaggio, forte ma non da cartolina, contribuisce all’isolamento personaggi, che si trovano soli e in una zona franca.

gottardoGià in Piazza Grande in pre-apertura del Festival di Locarno in occasione dell’apertuna del nuovo tunnel, Gotthard di Urs Egger, è una grande produzione di discreto livello. Fatta la tara delle inevitabili semplificazioni, riesce a rendere l’idea della grandiosità e della scommessa del primo traforo ferroviario, del grande sforzo, del tributo di vite umane (ufficialmente 177 morti) e, cosa non scontata, evidenzia il ruolo dei lavoratori. Non a caso sul finale uno dei protagonisti vuole andare a Londra da Karl Marx e fu dopo la conclusione dell’opera che vennero promulgate leggi per diritti dei lavoratori e ci fu la nascita del movimento operaio in Svizzera. Il film inizia a febbraio 1873, nel pieno dei lavori e alterna i due lati, soprattutto il nord, a Goschenen nel Canton Uri. Il centro della vicenda sono l’amicizia e la rivalità tra due operai arrivati per il cantiere: il vitale e impetuoso Tommaso e il pensoso Max, che si contendono anche la stessa donna, Anna. L’arrivo della dinamite cambia le sorti del tunnel e velocizza lo scavo, anche se ciò cambierà tante cose. L’imprenditore Favre muore dentro il tunnel, appena capito che i due scavi stanno per incontrarsi. Un minatore esce di corsa ad annunciare la caduta dell’ultima barriera un po’ come Filippide a Maratona.
Ricorda molto il capolavoro di Villi Hermann San Gottardo (1977) in diverse scene, dallo sciopero dei lavoratori e l’intervento dell’esercito, ma anche la vita quotidiana fuori e dentro la galleria. Se l’inizio di Gotthard sembra un po’ così, da film tv scialbo, poi migliora, ci sono diversi momenti intensi, regge le tre ore di durata, ha buone interpretazioni (Pasquale Alerardi, Maxim Mehmet, Miriam Stein e Carlos Leal) e si dimostra quanto meno buona televisione.
Era passato sempre a Locarno un altro dei lungometraggi di punta dell’ultima stagione, Moka – Per mio figlio di Frédéric Mermoud con Emmanuelle Devos qui particolarmente somigliante a Catherine Deneuve. Un thriller televisivo abbastanza prevedibile, sufficiente se ci si accontenta di poco, uscito in sala anche da noi. Una donna che vuole giustizia per il figlio, investito da un automobilista pirata francese, e si mette da sola alla ricerca dell’auto implicata, color “moka”. Ossessione, vendetta, colpi di scena prevedibili e sottolineature (con la ripetuta Sonata al chiaro di luna) evitabili.

La sezaione documentari
Tra i documentari, interessante The Other Half Of The Sky del locarnese Patrik Soergel, un quadro abbastanza inedito delle donne cinesi skyimprenditrici. La Cina è il paese con il maggior numero di miliardarie al mondo e il regista ha scelto quattro donne tra le donne più potenti del Paese, donne che hanno vissuto l’austerità della Rivoluzione Culturale e le riforme che hanno portato il boom economico e dato loro l’opportunità di fare carriera. Yang Lan è la regina dei talk show femminili. Zhang Lan è una magnate della ristorazione che da piccola ha vissuto in un campo di lavoro. Dong Mingzhu dirige la maggior azienda d’impianti d’aria condizionata al mondo. Gill Zhou, dopo una carriera militare, è diventata una figura leader nel campo dell’informatica. La corsa della Cina verso lo sviluppo, il desiderio di lusso, le prossime tappe nella crescita delle aziende, l’intenzione di passare dal Made in China a “ideato in Cina” e insieme anche l’aspetto più privato e familiare delle protagoniste.
In rassegna anche lavori italo-svizzeri come Il fiume ha sempre ragione di Silvio Soldini, Spira mirabilis di D’Anolfi e Parenti e Pescatori di corpi di Michele Pennetta, passati in diverse manifestazioni e in sala.
Interessante La vallée du sel di Christophe M. Saber, regista di madre svizzera e padre egiziano di famiglia cristiana, cresciuto in Egitto. Mubarak è stato rovesciato, in carica c’è il presidente eletto Morsi e la famiglia Saber, prima tollerata, è in difficoltà per via della propria fede. Al immaginetelefono i genitori raccontano al regista, che studia cinema in Svizzera, di essere stati minacciati. Il giovane, partito sei mesi prima della rivoluzione contro Mubarak, decide di tornare a casa a trovarli per Natale. La Valle del sale è l’oasi dove vivono, nella quale son stati costruiti anche residence turistici. Il regista aveva pensato a lungo di fare un film su Egitto per sostenere la rivoluzione (va a filmare anche le proteste anti Morsi), ma non pensava di farlo sulla sua famiglia, che con un’associazione per più di 20 anni ha aiutato la gente del vicinato. I Saber non vogliono però lasciare l’Egitto e arrendersi a chi vuole imporre paura.
Alcuni documentari sembrano fatti però più per alleviare il senso di colpa della ricca borghesia svizzera, che per un vero interesse verso ciò che accade nel resto del mondo, per quanto i temi possano apparire impegnati. È il caso dell’irritante Mirr di Mehdi Sahebi, nella comunità Bunong in Cambogia, vicino al Vietnam. Storie di contadini che stanno perdendo le terre per lasciare il posto alle piantagioni di caucciù e decidono di fare un film per denunciare la situazione. Troppe scene da fiction in Mirr, schematico, prevedibile, ricattatorio oltre ogni limite e povero dal punto di vista artistico.
Anche Trading Paradise di Daniel Schweizer non tiene fede alle promesse. Dovrebbe essere un’indagine sulle aziende svizzere che fanno viaggiare il 20-30% delle materie prime mondiali, il 35% del petrolio e il 50% del rame. In realtà prende i casi di tre, Glencore, Baar Suisse e Vale, e i casi di comunità in tre Paesi – Perù, Zambia, Brasile – alle prese con danni delle miniere. Ginevra è il centro nevralgico della loro azione, a Losanna da qualche anno, organizzato dal Financial Times, si tiene la conferenza internazionale delle materie prime con le prevedibili contestazioni, e non manca il Forum di Davos. Ci sono anche alcune battute di Joseph Stiglitz e film di repertorio e reportage vari, compreso Salt of the Earth (1954) di Herbert J. Biberman. Il finale lascia tante domande, ma su come funzionano queste aziende (che hanno il pieno sostegno dei politici di destra dell’Udc), come è organizzato il mercato delle materie prime e come hanno raggiunto queste posizioni dice poco. È più film su conseguenze delle scelte aziendali, conseguenze del resto mostrate in tanti film, che un raggio di luce su ciò che non conosciamo, il perché di politiche che ci appaiono disumane oltre che insensate e che ancora una volta restano nell’ombra.

da Soletta, Nicola Falcinella

Topics
Vedi altro

Articoli correlati

Back to top button
Close