Percorsi

Elio Petri. Un vuoto lungo trent’anni

Forse oggi esiste davvero un problema: l’impossibilità di definire la classe operaia, di definire qualsiasi classe. Per cui diventerebbe anche sterile affermare che non ci sono più narratori come Elio Petri, capaci di trasformare il cinema in analisi dei rapporti sociali e delle forme di potere. Molto piùcoerentemente, in maniera diversa, siamo tutti convergenti con i tempi in corso. Petri lo è stato profondendo una partecipazione alle lotte sociali non comune, e non solo attraverso il cinema.
Figlio unico di una famiglia di artigiani, non navigava nell’oro, anzi. Il padre, infaticabile lavoratore, divenne figura mitica, evocata nel 1962 nel suo secondo lungometraggio I giorni contati. Per questo, stare dalla parte degli operai – come amava affermare – fu naturale. Che era poi la scelta di posizionarsi nel campo di battaglia, sempre e comunque al centro della lotta, dentro e fuori il Partito Comunista, dentro e fuori i cineclub.
Già militante nella rivista culturale vicinissima al Pci Città aperta dal ’56 al ’58, pronto alla polemica non per il gusto dello scontro, ma convinto che la libertà di pensiero ed espressione passasse dalla dialettica, Petri comincia come sceneggiatore e aiuto regia. La palestra si chiama Beppe De Sanctis, dove impara tecnica e gestione del set senza transitare scuole e accademie: un apprendistato serio che unito alla naturale propensione per le arti figurative lo trasforma in un regista capace di costruire con la macchina da presa immagini di rara potenza espressiva.

Dopo corti e documentari, l’esordio con un lungometraggio arriva in uno dei momenti più propizi per un emergente nella storia del nostro cinema: i primi anni sessanta che, anticipati dalle opere prime di Rosi e Ferreri, videro i natali cinematografici di Pasolini, Olmi, Montaldo, Bertolucci, i Taviani, Vancini, Pontecorvo, Maselli, Bellocchio. Una congiuntura produttiva che permetteva di investire sulle idee con un calcolato rischio di impresa (piccole navi di produttori indipendenti, ma con soldi veri, e i transatlantici di Ponti, De Laurentis, Lombardi, soldi veri anche i loro: lire e dollari).
Petri realizza nel 1961 uno pseudo-giallo, L’assassino, ma la misura di uno stile personale, pur nella tendenza a realizzare opere sempre diverse tra loro e fuori dai vincoli di genere, si precisa nei film immediatamente successivi, a cominciare proprio dal superlativo I giorni contati, sicuramente il miglior film prima del sodalizio con Ugo Pirro. La prova di Salvo Randone (ma ci mancò poco che il ruolo non fosse interpretato da Totò), che porta sulle spalle i momenti più intensi e dolenti del film scritto con Tonino Guerra, sposa la regia di Petri, già sicura in ogni movimento di macchina (che diventerà un marchio di fabbrica) a mettere in relazione luoghi e personaggi così come aveva insegnato il neorealismo (che pure rimane una eco). Il film vinse il festival di Mar de la Plata (dove tra l’altro era in concorso Truffaut con Jules e Jim) e un Nastro d’Argento. Tanto bastò perché De Laurentis pensasse a lui come regista de I mostri. Poi qualcosa dovette andare storto, forse una scrittura giudicata marcatamente di sinistra, se è vero che il produttore gli disse di farsi finanziare il film da Togliatti! Così Risi girò I mostri e Petri Il maestro di Vigevano.
Seguono lavori interlocutori, tra cui La decima vittima ambientato nel futuro, scritto con Flaiano, interpretato da Mastroianni e prodotto da Ponti. Ma è con un indipendente, l’industriale Giuseppe Zaccariello, fino a quel momento estraneo al cinema, che il regista ritrova libertà creativa: A ciascuno il suo è un film magnifico e nettamente in controtendenza rispetto al cinema del disimpegno in voga allora, segnato dalla scrittura di Pirro e soprattutto dal secondo sodalizio fondamentale per Petri e la sua crescita artistica: quello con Gian Maria Volontè. Tratto dal romanzo omonimo di Sciascia, Petri porta sullo schermo la Mafia, intraprendendo in felice compagnia il cammino verso un cinema di impegno civile fatto di sfide ai poteri costituiti, di provocazioni alla critica di partito, in coerenza con la volontà di mettere in discussione il presente, sempre più marcato da disuguaglianze sociali, soprattutto alla fine degli anni ’60 quando la cortina di fumo del boom economico si è ormai diradata, scoprendo un’Italia fragile e in procinto di esplodere nel decennio nerissimo della lotta armata.
Scomodo e imbarazzante Elio Petri lo diventa definitivamente dopo Un tranquillo posto di campagna, film prodotto da Grimaldi (e dalla United Artists) che, attraverso la parabola schizoide di un pittore pop (Franco Nero), pone accenti inquietanti sul sistema capitalistico che riduce l’uomo a oggetto economico. Il film segna un’altra tappa fondamentale nel percorso del regista: l’incontro con Morricone, che per l’occasione compone una partitura fatta di suoni e rumori, una vera e propria colonna sonora dell’anima agitata dell’artista.

La definitiva consacrazione internazionale arriva con una tetralogia di opere spiazzanti, moderne, coraggiose, che se ne infischiano del mercato, delle tendenze del cinema nazionale, delle richieste dei padroni. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, La classe operaia va in paradiso, La proprietà non è più un furto, Todo Modo. Arrivano i premi, gli applausi della critica fuori dai confini nazionali, la Palma d’Oro a Cannes, l’Oscar. Indagine, prodotto dal giovane Daniele Senatore (ancora una volta un soggetto fuori dal sistema delle major italiane), spiazza lo spettatore messo di fronte a un urticante ispettore di polizia, violento, arrogante nell’esercizio del potere, fino a prendersi beffe di ciò che rappresenta, mettendo a nudo carenze e insufficienze di sistema, ma anche la pochezza ideologica del Corpo di Stato. Volontè giganteggia, è un incubo, un demonio folle e razionale al tempo stesso, calcolatore nel gusto di prevaricare tanto i nemici politici (i giovani contestatori di sinistra, che liquida sprezzante dicendo che “La rivoluzione è come la sifilide, ce l’hanno nel sangue”), quanto i servi opportunisti senza midollo e nemmeno palle. E pure la donna è un oggetto da mettere in ginocchio, da umiliare fino a sentirne il sapore del sangue (Florinda Bolkan, splendida, non sfigura di fronte a Volontè). Film politico ovvio; ancor di più perché il pubblico si mise in coda al botteghino, dopo il Premio Speciale della Giuria a Cannes e prima dell’Oscar come miglior film straniero. L’Italia rappresentata è porca e misera, morsa dalla paura del cambiamento, il cui unico imperativo è preservare i privilegi di pochi attraverso un sistema di controllo che non può e non deve tradire crepe.
Era inevitabile che l’attenzione si spostasse finalmente sulla fabbrica (e per la prima volta in Italia), specchio deformato del paese nei primi anni Settanta. Lo spunto per Pirro e Petri fu la lotta che Potere Operaio stava conducendo in una fabbrica a Novara. Volontè, manco a dirlo è mattatore con qualche eccesso, che rischia sempre di trascinare il film nel territorio della satira grottesca. Nei panni di Lulù Massa è prigioniero di un sistema che lo riduce a macchina della produzione a cottimo prima, per trasformarlo suo malgrado in contestatore dopo. Il film già in scrittura toccava nervi scoperti, punti nevralgici del ordigno fabbrica e delle relazioni tra quadri del Pci e i sindacati. L’attore, all’epoca in linea con il PCI, non aveva molto apprezzato la sceneggiatura e diverse volte entrò in conflitto con Pirro (anche fisicamente). Del resto non era materia leggera: le lotte studentesche e il movimento operaio, la disumanizzazione del lavoratore trasformato in ingranaggio, la difficile interlocuzioni con i padroni.
A voler accostare Petri a Rosi, alle allegorie di Pasolini, al Conformista di Bertolucci, si percepisce il desiderio di dare risposte alle istanze innovatrici in chiave democratica dell’Italia più vivace e tenace, giovane e speranzosa. L’odore di corruzione e delle clientele si faceva acre: l’essere distrutto dall’avidità, la sete di potere che sfonda nella pubblica amministrazione e i destini decisi nei teatrini di Palazzo.
Il cinema guarda in profondità e preannuncia una dissoluzione morale che avvelenerà la politica e, a cascata, il ceto medio. Il ragioniere che maneggia i soldi con i guanti per non bruciarsi in La proprietà non è più un furto non è più sintomo ma già malattia. Peccato che il film non fu capito, come pure La classe operaia, attaccato pure da esponenti della Fiom, indifeso dalla critica, mentre la politica, impegnata ad addomesticare il “problema sociale”, tentava di inabissare il film. Mostruoso. Perché fuori la protesta incalzava e arrivava pure alla Mostra del Cinema di Venezia, a dimostrazione che intellettuali e autori potevano giocarsi più di una carta per interpretare il disagio collettivo.
Petrì non trovò molti amici e nell’epoca del compromesso storico fu colpito duramente dopo Todo Modo con una censura applicata subdolamente, allorché il film sparì dalle sale e fu rimosso. Del resto il politico interpretato da Volontè aveva le fattezze di Moro, e tutto evocava il disfacimento morale di gran parte della dirigenza democristiana. Se un film è una frase a cui il pubblico presta ascolto, quella di Todo Modo era una frase pericolosa, ancora una volta, col senno del poi, profetica.

Fu Giannini, bussando alla porta di Medusa, a trovare il denaro per l’ultimo film di Elio, Buone notizie. Era il ’79. Poi la malattia. Un progetto rimasto aperto e per sempre in attesa, dopo la morte prematura. Come Pasolini, due uomini il cui sguardo avrebbe forse illuminato perlomeno gli anni 80. O forse gli avrebbe sofferti.
Che in trent’anni dalla scomparsa (era il 10 novembre) il nome di Petri sia quasi sconosciuto alle nuove generazioni è sconcertante. Divoratore di immagini fin da bambino, artista tra i più “americani” in quanto a tecnica e stile di regia, maestro del dolly, capace di scolpire lo spazio e di avvicinare i suoi attori fino ad entrargli nell’anima, abitava il set con sicurezza e allegria, nel rispetto di ogni singolo componente della troupe, con l’unico obiettivo di incidere sugli attori adottando approcci diversi, perché alla fine il cinema si fa con le storie, ma anche con uno sguardo che dallo schermo sappia dialogare con il pubblico.

Alessandro Leone

Topics
Vedi altro

Articoli correlati

Lascia un commento

Back to top button
Close