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Figlio di nessuno

NO_ONE_S_CHILD1988, primavera. Fra le montagne della Bosnia, viene ritrovato un bambino cresciuto fra i lupi. Ospitato in un orfanotrofio a Belgrado, dove è affidato alle cure di Ilke, gli viene dato il nome di Haris (ribattezzato Pućke dagli altri ospiti). Žika, un ragazzo di circa tredici anni, empatizza con Pućke che lentamente inizia ad apprendere comportamenti umani. Seguono quattro anni di piccoli ma costanti progressi, fino a quando nel 1992, nel pieno della guerra, le autorità locali lo costringono a tornare in Bosnia e ad una precoce autonomia.
Vuk Ršumović, dopo aver lavorato per la televisione e girato corti e documentari, sceglie una via rischiosa per esordire nel lungometraggio a quasi quarant’anni: la strada tortuosa diventa un sentiero i cui margini vedono da una parte il cinema di Truffaut (non solo Il ragazzo selvaggio, accostamento spontaneo ma alla fine inopportuno), dall’altra lo scenario austero degli anni che preparavano il crollo e lo smembramento bimbolupoviolento della Jugoslavia. Sgombriamo il campo da altre associazioni fuorvianti: tratto da una storia vera, Figlio di nessuno (vincitore della Settimana della Critica al 71° Festival di Venezia) ha poco a che fare con la retorica del “buon selvaggio”, che idealizzava – a partire dal XVIII secolo – il primitivismo in contrapposizione alla civilizzazione. Semmai, nel terzo e conclusivo atto del film, di cui non sveliamo i tracciati narrativi ma di cui non nascondiamo la natura allegorica e, in un certo senso, spiazzante (se non deludente), rispetto al registro che caratterizza il resto del film, si intravede una riflessione sull’incapacità dell’educazione alla civiltà di addomesticare il lupo contenuto nell’uomo, o meglio la creatura famelica che troppo spesso sfugge alle briglie della razionalità.
Ršumović invece, lungi dal voler descrivere le fasi cliniche della riabilitazione di una creatura dei boschi, proprio sul modello del dottor Itard truffautiano, apparenta il suo ragazzo selvaggio a diversi bambini cresciuti da orsi, scimmie, addirittura pecore, e appunto lupi, come l’undicenne che nel 1799 fu trovato in Francia nel dipartimento di Aveyron, a cui Pućke somiglia per aspetto e comportamenti. Il passaggio dalla natura selvaggia alla civiltà diventa il pretesto per focalizzare le dinamiche di gruppo nei processi di crescita e accentare la componente affettiva come indispensabile al percorso educativo: Žika fraternamente verso Pućke, gli rivolge prima di tutto lo figlioluposguardo, abbassandosi sul suo orizzonte, che all’inizio coincide con il pavimento. Pućke viene rimesso al mondo da Žika, perché questi capisce che per poter arrivare al bambino deve passare dal lupo, utilizzando il linguaggio del gioco.
Con una regia asciutta e rigorosa e una messa in scena che evoca il clima austero della fine degli anni 80 nel primo avamposto dell’Est Europa, Ršumović affida ad uno straordinario Denis Murić il corpo concettuale del suo film. Riducendo al minimo i dialoghi, il regista riesce a scrivere con le sole immagini la trasformazione di Pućke, costruendo inquadrature di grande forza espressiva ma sempre connesse al personaggio e a ciò che lo stesso vede, sente, percepisce (fuoricampo), in relazione a bisogni e pulsioni: prima il cibo, poi l’amicizia, infine il sesso. Così, dopo il passaggio dal bosco alla città, davanti al secondo vero trauma di Pućke, il suicidio di Žika abbandonato definitivamente dal padre che lo aveva temporaneamente ripreso con sé solo per sfruttarlo, Ršumović evita qualsiasi enfasi, inquadrando semplicemente le scarpe del corpo impiccato (le scarpe ritornano spesso come elementi simbolici della mutazione di Pućke). O tempo dopo, quando la fidanzatina di Žika, Alisa, occupata in un bordello, gli regala un po’ d’amore per poi scomparire, mentre da un finestrino i primi cingolati annunciano l’inferno. Qui e altrove, nei quattro anni raccontati nel film, gli occhi del bambino, che ha imparato a guardare per apprendere, stringono sullo sconcerto di fronte alla lezione che la vita gli sta impartendo nella misura di tutti i distacchi, gli abbandoni, le partenze, che il piccolo uomo subisce suo malgrado e che verranno amplificati dal frastuono indecente della guerra civile, e di uomini-lupo che sbranano altri uomini-lupo. Attonito in mezzo al bosco, l’ultimo sguardo di Pućke interroga la vita come Doinel di fronte all’oceano prima di farsi definitivamente uomo.

Alessandro Leone

Figlio di nessuno

Regia e sceneggiaturaVuk Ršumović. Fotografia:  Damjan Radovanović. Montaggio: Mirko Bojović. Interpreti: Denis Murić, Pavle Čemerikić, Isidora Janković, Miloš Timotijević. Origine: Serbia, 2014. Durata: 97′.

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