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Gli anni ’60 e il cinema

Tra le molte cose che si possono fare a Filmstudio90, a Varese, c’è quella di andare al cineforum organizzato da Mauro Gervasini. Tutti i giovedì, per quattro giovedì. Dal 10 al 31 gennaio.

Mauro Gervasini è, in ordine sparso, un giornalista, un critico cinematografico, uno dei selezionatori per la mostra del cinema di Venezia. E’ anche, verrebbe da dire soprattutto, un formidabile narratore di storie di cinema. Allora siamo andati a farci raccontare qualcosa dei film che ha deciso di presentare e che stanno tutti in una manciata di anni (dal ’62 al ’67) e che finiscono per rappresentare, inevitabilmente, uno sguardo sul quel periodo lì, e sul tipo di cinema che ne è venuto fuori.

Mauro, la rassegna si chiama SCENARI AMERICANI, GLI ANNI SESSANTA E IL CINEMA. Come mai gli anni sessanta?

Perché sono un decennio cruciale. E’ il decennio in cui il cinema da classico diventa moderno. Poi la modernità del cinema, in realtà, nasce in Europa. La nouvelle vague, il free cinema degli inglesi. E sulla scorta anche del neorealismo italiano, soprattutto quello di Rossellini, che è quello che dal punto di vista estetico, linguistico, influenza moltissimo le vague degli anni sessanta. Gli americani reagisco a modo loro, perché sono legati al modello, per così dire, industriale del cinema. E’ come se reagissero di sponda, persino con un certo fastidio. Certo ci sono le eccezioni. C’erano anche prima, nel pieno del cinema classico. Orson Welles è stato un enorme innovatore. E c’è stato Kubrick. Ma insomma, rimangono delle eccezioni.

Poi cos’è cambiato?

Poi succede una cosa fondamentale, importantissima. Che un nuovo mezzo espressivo, la televisione, prende sempre più piede. C’è da misurarsi con un nuovo tipo di linguaggio. Cambia la prospettiva linguistica, e di conseguenza il modo in cui le storie sono rappresentate. Cambiano le storie stesse. All’epoca la televisione poteva essere considerato una specie di laboratorio. Cosa che oggi non è minimamente pensabile.

E tre dei registi dei quattro film che proporrai hanno lavorato per la televisione.

Uno in particolare: Arthur Penn. Una delle cose più importanti che ha fatto Penn, anche se lo sanno in pochi, è stata la regia dell’incontro televisivo tra Kennedy e Nixon. Penn è stato il curatore della campagna televisiva di Kennedy. Contribuendo notevolmente alla vittoria Kennedy, che era giovane, irlandese, cattolico; lontanissimo dal modello dei presidenti precedenti. Ma per la televisione hanno lavorato anche Brooks e Frankenheimer.

E poi c’è Billy Wilder.

Billy Wilder. Che non è nemmeno americano, anche se è di cinema americano che parliamo. Però Wilder fa parte, diciamo così, di quel gruppo di autori che si sono perfettamente integrati nell’ambiente americano. E che hanno portato la cultura, l’ispirazione e anche il genio e l’esperienza che gli derivava da un certo tipo di cinema europeo in dote a Hollywood. Allora ho scelto Baciami stupido, che mi sembra il suo film più moderno e che Wilder stesso dice essere il suo film più riuscito. Baciami Stupido si basa su di una grandissima intuizione, e cioè che una strada per la modernità passa attraverso il cinema comico. E questo perché il cinema comico è il cinema che si è sempre permesso di fare quello voleva. E questo ti dà la possibilità di spezzare il canone, di andare oltre il canone. Ti faccio un esempio: se un comico, pensa per esempio a Oliver Hardy, guarda in macchina, è una cosa, in quegli anni, ormai considerata normale. Se John Wayne guarda in macchina, John Ford lo butta fuori dal set. E Baciami stupido è un insieme di tutte queste cose.

Questo per quanto riguarda il linguaggio, ma i film che proponi hanno qualcosa di nuovo anche per quanto riguarda i contenuti. Gli argomenti.

Sì, anche se i punti di partenza di queste storie, sono già presenti nel cinema classico. Soprattutto per quanto riguarda Va’ e uccidi e La caccia, che in fondo segue le dinamiche del western, anche se ci sono le automobili invece dei cavalli; perché c’è uno sceriffo che cerca di mantenere l’ordine, c’è un bandito, c’è una piccola cittadina che subisce l’arrivo di questo bandito. Sono i temi che sono nuovi, ciò che viene posto in risalto. Argomenti che all’epoca venivano considerati scabrosi. Non solo da un punto di vista sessuale, ma anche da un punto di vista politico. Il fascismo e il comunismo in Va’ e uccidi, il razzismo ne La caccia. 

In A sangue freddo il punto di partenza è addirittura un fatto di cronaca, anche se poi passa attraverso la mediazione del libro, bellissimo, di Truman Capote. E’ quasi un precedente della docu-fiction, potremmo dire. Non ci sarebbe stato Gomorra, per dire, senza A sangue freddo. E’ stato un po’ il primo genitore di quel tipo di produzione. E’ questo era già un elemento di estrema modernità, ed è tipico degli anni sessanta. Negli anni sessanta c’è questa enorme voglia di rottura.

Che è molto diversa, mi sembra, dalla voglia di rottura europea.

Perché negli Stati Uniti, anche i registi di questi quattro film, lavorano all’interno del sistema. Invece la prima cosa che fanno in Europa è rompere con il sistema, anche in maniera brutale. Sono due modi completamente diversi di cambiare le cose.

Tutte le informazioni sul cineforum SCENARI AMERICANI. GLI ANNI ’60 E IL CINEMA, e sulle altre iniziative di Filmstudio90 le trovate qui: www.filmstudio90.it .

Matteo Angaroni

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