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Hannah Arendt

È il 1961. Dopo essere stato rapito in Argentina un anno prima dal Mossad, Adolf Eichmann,   il “contabile” di Auschwitz, viene processato a Gerusalemme. Il New Yorker chiede a Hannah Arendt, emigrata negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni naziste, di seguire il processo come inviata del giornale. Superate le perplessità iniziali, sollevate in primis dal marito di lei, Heinrich Blücher, la Arendt accetta il delicato incarico. Margarethe von Trotta ci racconta proprio la storia di questa avventura dalle
mille ombre e contraddizioni, la storia di una pensatrice di origini ebraiche che, pur di non rinunciare alla propria onestà intellettuale, giunge a subire l’odio e le critiche del proprio stesso popolo. hannahandheradmirers-300x168Se infatti il pubblico del New Yorker si aspetta che l’autrice tratteggi i lineamenti di un mostro, l’immagine che la Arendt propone è sostanzialmente quella di un impiegato, di un uomo mediocre, assolutamente privo di fede ideologica, paradossale sostenitore del sionismo piuttosto che spietato antisemita, che accetta l’incarico nel Sicherheitsdienst nazista come avrebbe accettato qualunque altro impiego: «Non ebbe il tempo, e nemmeno il desiderio, d’informarsi bene; non conosceva il programma del partito, non aveva mai letto Mein Kampf. Kaltenbrunner gli disse: “Perché non entri nelle SS?”, e lui rispose: “Già, perché no?” Andò così». L’unica cosa che Eichmann sa fare davvero bene è eseguire gli ordini, obbedire alla legge, quella legge che nel suo tempo è la parola di Hitler, quella legge che adesso gli ordina di sterminare gli ebrei, ma che se in un altro momento gli avesse ordinato di salvarli tutti, lui avrebbe rispettato con la stessa diligenza, con il medesimo rigore, senza farsi domande. Secondo la Arendt è l’incomprensione di questo fattore fondamentale, della banalità del male di cui era intrisa la Germania nazista a viziare lo stesso processo al gerarca, nel quale i giudici, a suo avviso, finirono per trascurare il più importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso: «Essi partivano dal presupposto che l’imputato, come tutte le persone “normali”, avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e in effetti Eichmann era normale nel senso che “non era una eccezione tra i tedeschi della Germania nazista”, ma sotto il Terzo Reich soltanto le “eccezioni” potevano comportarsi in maniera “normale”». E questo perché, osserva acutamente la filosofa, «il male, nel Terzo Reich, aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – la proprietà della tentazione»: nel momento in cui il male è legge, ortodossia, il bravo cittadino, quello che la legge la rispetta, compie il male non infrangendo, bensì proprio rispettando la legge, e lo fa peraltro nel miglior modo possibile. Eichmann, nella Germania hitleriana, nel contesto di valori istituito dall’ideologia nazista, è dunque un un cittadino modello, e questo perché non sempre la legge accettata e riconosciuta da una comunità è morale, pur essendo giuridicamente vincolante. La sua unica colpa, sua come di moltissimi altri, è semplicemente quella di non essere l’eccezione, di non essere uno spirito critico, di non saper pensare.

HAMa come si fa a quindici anni di distanza dalla fine di una delle più grandi tragedie del genere umano ad accettare di fare i conti con la banalità di tale tragedia, più atroce ancora di qualsiasi atrocità consapevolmente commessa? Ecco allora l’accusa rivolta alla Arendt, dal mondo ebraico innanzitutto, di aver sottovalutato l’efferatezza del fenomeno nazista, di non aver reso giustizia a milioni di morti, un’accusa dettata dal dolore e dal desiderio di giustizia di un popolo che non può accettare di essere stato sterminato solo per scrupolosa obbedienza ad una legge.

La von Trotta rende con efficacia non solo la fase del processo, includendo impressionanti filmati d’archivio, ma soprattutto la fase successiva, la fase delle critiche, delle polemiche e del tormento della Arendt, abbandonata quasi da tutti e ciononostante capace fino all’ultimo di lottare per le proprie idee. Un film didattico, ma ben fatto, che aiuta il grande pubblico a conoscere più da vicino una figura di cui spesso si parla, ma di cui non molto si sa, nonché a guardare al male da una prospettiva che, mettendone a nudo la razionale banalità, rischia di far più paura ancora dell’orrore raccontato nei suoi aspetti più mostruosi.

Monica Cristini

Hannah Arendt

Regia e sceneggiatura: Margarethe von Trotta. Fotografia: Caroline Champetier. Montaggio: Bettina Bohler. Interpreti: Barbara Sukowa, Axel Milberg, Janet Mc Teer, Julia Jentsch. Origine: Francia/Lussemburgo/Germania, 2012. Durata: 113′.

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