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HOME, questi fantasmi

Marthe e Michel vivono con i loro tre figli isolati in un’abitazione che affaccia su un’autostrada mai completata. L’asfalto è diventato il loro cortile dove giocare, stendere, guardare la televisione. Inaspettati però una mattina arrivano degli operai a lavorare sul tratto autostradale. L’arteria viene inaugurata, le auto iniziano a sfrecciare e la vita della famiglia viene stravolta.. 

Sfreccio veloce sull’A14, osservo il paesaggio antropico frantumato in istanti. Penso che nessuno costruirebbe mai su un’autostrada, come a nessuno verrebbe in mente di costruire edifici che affacciano su una ferrovia. La realtà mi smentisce, ma il più delle volte sono le arterie di ferro e cemento ad affondare in un tessuto umano preesistente, sfidando la resistenza degli indigeni in lotta per sopravvivere all’impossibile schianto con la modernità, veloce e impietosa; o cedere semmai ad un razionale abbandono, che a volte significa recidere legami affettivi con il suolo.

È affascinante come una casa sull’albero, un’abitazione alla fine di un’autostrada. Viadotto abbandonato come un promessa di comunicazione non mantenuta. Una via che permette unicamente di collegare una famiglia di cinque persone con il resto del mondo, che immaginiamo caotico ma lontano, mentre le tracce di vernice scoloriscono al sole e tratteggiano niente più che un alfabeto sconnesso dai significati. La pista d’asfalto è un oggetto da ready-made, ora campo da hockey ora velodromo ora giardino dove guardarela Tvcome la famiglia Simpson, al limite per immaginare fughe verso l’ignoto. L’abitazione alla fine dell’autostrada è circondata dalla campagna e definisce un’epica nuova di mondo ai margini del progresso chiassoso, irrispettoso dei bisogni umani e, per questo, irresponsabile. Vivere il presente per la famiglia di Marthe (Isabelle Huppert) e Michel (Olivier Gourmet), assume toni grotteschi e surreali, soprattutto quando lo scenario metafisico, come un manichino al centro di una piazza deserta, si trasforma nel più angosciante degli incubi. L’asfalto ridiventa improvvisamente autostrada e il gioco divertente di scommettere sul colore della prima auto che passerà davanti alla finestra di casa, un preludio ai fiumi di auto che, nei due sensi, proveranno la capacità di adattamento del piccolo nucleo. La figlia più grande non rinuncia a prendere il sole in bikini, fregandosene dei grassi apprezzamenti dei camionisti, il più piccolo osserva incuriosito, mentre la ragazzina preadolescente mette in guardia dai livelli di polveri sottili e inquinamento acustico fino a profetizzare una irreversebile contaminazione: la catastrofe sui/nei corpi, intorno ai quali è sottratto lo spazio.

La vita a due passi dall’eden è un ricordo, forse un ingenuo retaggio ancestrale: la mancanza di inibizioni (il bagno fatto insieme) che rimandavano alla simbiosi tra corpo/uomo e corpo/terra, mutano tragicamente nell’impossibilità della mamma ad abbandonare la casa per salvare la pelle. Sembra di essere ne L’angelo sterminatore di Bunũel. Lei, le mura, la terra, mentre tutto intorno è follia di rumori assordanti e gas di scarico che ne fanno degli invisibili sopravvissuti di un’epoca perduta (tanto che operai e asfaltatori procedono come se non esistessero, trasformando i loro esserci in presenze infestanti e la casa in una casa posseduta).

Resistere non ha senso razionale, come non lo sono le reazioni di madre padre e figli, anche nel momento in cui la più grande decide di avventurarsi fuori, prendendo un passaggio da uno sconosciuto. Una preoccupazione per il destino della figlia mai veramente sentita, perchè l’Angelo Sterminatore della Meier è al lavoro sulla psiche dei protagonisti, che per sfuggire al cancro si murano dentro con le provviste necessarie a prolungare una inevitabile fine. È la cronaca di un soffocamento assurdo e autoinflitto che costringe a boccheggiare anche in sala, mentre a tutti i costi si vorrebbe una spiegazione plausibile e, al tempo stesso, una via di fuga per i bambini, perchè almeno loro possano trovare un’alternativa alla follia di una società autodistruttiva, votata alla morte sotto la spinta illusoria di un accumulo di beni infinito e schizofrenico.

L’autostrada respira acido al ritmo di pulsazioni sopra i cento chilometri orari. Un ingorgo è il suo tumore benigno (sarebbe piaciuto ai futuristi respirare vivo, affacciandosi dalla home della Meier. Forse per questo il movimento non è sopravvissuto agli orrori di un secolo di guerre e distruzioni).

Quando il corpo esile della Huppert decide di lasciare la tomba, pare scomparsa ogni forma di violenza, senza per questo averci regalato una gratificante promessa per un nuovo giorno.

Alessandro Leone

(Pubblicato sul n°27, aprile 2009)

Regia: Ursula Meier. Sceneggiatura: U. Meier, Antoine Jaccoud, Raphaelle Valbrune, Gilles Taurand. Fotografia: Agnès Godard. Montaggio: Susanna Rossberg. Interpreti: Isabelle Huppert, Olivier Gourmet, Adélaide Leroux. Durata: 97’. Origine: Sviz/Fra/Bel, 2008.

 

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