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Intervista a Steve Chen e Lida Duch

Tra una giornata afosa e l’altra, eccoci qui, in un piccolo attimo di pace lontani dalla calura estiva di una Locarno pienamente immersa nella sessantottesima edizione dell’omonimo festival del film, in compagnia del regista di DreamlandSteve Chen e dell’attrice protagonista della pellicola, Lida Duch. Prodotto esordiente nella categoria cineasti del presente, Dreamland si è rivelato tra i film più curiosi di questa edizione.
L’insolita analisi del panorama cambogiano, metaforicamente rappresentato nelle problematiche e nelle gioie di una giovane coppia locale, diventa, sotto la mano del regista e architetto Steve Chen, un interessante viaggio riflessivo, a tratti contemplativo, nella memoria di un popolo e nell’approccio di questo al proprio futuro.
Abbiamo avuto l’opportunità di intervistare il neo-regista e la giovane protagonista, instaurando una piacevole conversazione sulle mille sfumature che colorano il mondo di Dreamland, un breve incontro che può aiutarci a un approccio più accorto e forse più profondo della pellicola in oggetto.

dreamland-6MS: Il silenzio può assumere, nella cinematografia, un ruolo estremamente importante e forte. Abbiamo visto quanto significativi fossero i silenzi in film come Somewhere o Lost in Translation, entrambi di Sofia Coppola, ma, perché si ottengano grandi risultati dai silenzi impiegati nella pellicola come mezzi comunicativi, è necessario che gli attori abbiano un’approfondita conoscenza del loro corpo e della propria capacità espressiva, capacità che si rispecchia nelle espressioni del volto così come nei gesti e negli sguardi.

Lida, tu non hai avuto di questi problemi. Anche nelle scene estranee al tocco della sceneggiatura, hai saputo trasmettere molto bene i sentimenti e le emozioni che la scena richiedeva. Come hai affrontato la preparazione al tuo ruolo ?

Lida: Dunque, in realtà non c’è stata una preparazione vera e propria fine al mio ruolo. Quando Steve mi ha scelta come protagonista non abbiamo iniziato a girare immediatamente; al contrario, abbiamo avuto tutto il tempo necessario a conoscerci prima che cominciassimo con le riprese. Abbiamo passato quanto più tempo ci fosse possibile insieme, così da capire l’uno la personalità dell’altra. Una volta instaurato questo legame non ho avuto difficoltà a interagire con lui e a comprenderne le richieste. Sapeva come adattare le inquadrature e i silenzi al mio modo di fare, alle mie espressioni e al mio essere in generale; io ho semplicemente cercato d’essere me stessa e Steve ha saputo sfruttare la mia personalità al meglio, adattando le sue idee al mio carattere.

MS: Steve, come accennato prima, sembrano esserci molti richiami al film premio oscar della Coppola. L’impiego del silenzio come strumento per dare un volto all’indefinibile, per descrivere l’indescrivibile era presente anche nel rapporto tra Bill Murray e Scarlett Johansson nell’interpretazione dei protagonisti di Lost in Translation. Queste lunghe pause di riflessione che vediamo in Dreamland, prive di dialoghi e focalizzate sulla potenza comunicativa del silenzio per l’appunto, vogliono richiamare quei metodi che la Coppola aveva utilizzato precedentemente? Inoltre i punti in comune col film sono molti, uno su tutti, per esempio, il frequente riproporsi del karaoke. Sono solo coincidenze o sono analogie volute e ricercate?

Steve: Non avevo fatto caso all’associazione con il film Lost in Translation, ma ci sono effettivamente delle analogie. É un film che ho amato e che, in seguito, ho odiato, ma solo perché lo avevo visto troppe volte.
Per quanto riguarda i silenzi l’idea era quella di trasmettere un sentimento che a parole non avremmo mai potuto descrivere in sceneggiatura. Siamo in un film post-genocidio e, benché non fosse mia intenzione parlare delle tragiche perdite del passato cambogiano, la realtà del territorio torna comunque a ricordarci di un passato che sembra impossibile cancellare. I silenzi vogliono essere un mezzo per riportare questa verità. Servono a lasciare che lo spettatore percepisca quanto, sebbene la tragedia sia relegata nel passato, sia ancora presente e attuale.
I silenzi servono, in questo senso, a ritrarre quel qualcosa che non riusciamo a vedere, ma che per via di ciò che è stato, sentiamo mancante.
É come una presenza con la quale sei costretto a relazionarti in un modo o nell’altro; è una forza che devi affrontare e che fa male; e vale sia per il trauma della relazione amorosa narrata, sia per il passato della persona vista come individuo.

DSC_0263 modMS: Steve, nel mio articolo io ho paragonato il film a un prodotto d’architettura mentale.
Oltre a essere un regista tu sei un architetto, quindi comprenderai l’associazione. Quello che ho percepito è che quanto vediamo in Dreamland, anche attraverso spiccati e numerosi riferimenti all’architettura work-in-progress cambogiana, si rifletta in una cosiddetta architettura della mente, riferendomi a quel processo di analogie che nel film sembra piuttosto chiaro e che collega la mera costruzione o studio di un edificio al medesimo processo di costruzione e studio della mente dei personaggi, delle loro personalità e dei loro sogni futuri. É come se prendessimo un primo mattone e cominciassimo, lentamente, a creare su di esso le fondamenta di un edificio – che potremmo paragonare all’introduzione della pellicola – poi abbiamo lo sviluppo dell’edificio, con le finestre, le scale, gli interni – questi corrispondono allo sviluppo dei personaggi e all’alternarsi di flashback, pensieri ed emozioni future e presenti – e infine abbiamo la costruzione del tetto, che corrisponde al termine della proiezione, quando ormai ogni pensiero o ragionamento è giunto a una conclusione che, seppur imprecisa, è pur sempre una conclusione.

Steve: É esattamente questo che intendevo! Essendo architetto è inevitabile che il mio modo di pensare sia pratico e concreto, ma è anche vero che da ciò che è concreto può ugualmente nascere una riflessione che si rifà al mondo dell’astratto, a ciò che l’immagine o la parola non possono esprimere. In questo caso l’architettura mi ha fornito le linee guida per strutturare le dinamiche del pensiero e dei sentimenti dei protagonisti e la cosa ha funzionato.

MS: Come è stata percepita in Cambogia l’idea di Dreamland? Hai ricevuto il pieno supporto della popolazione e delle autorità?

Steve: I cambogiani sono molto aperti mentalmente e molto pratici, ci hanno supportato fin dall’inizio. Gli unici accorgimenti ai quali abbiamo dovuto prestare attenzione sono quelli emersi nel confronto con le autorità.
Può capitare che magari parte del materiale girato non vada bene per motivi di religione o per ragioni culturali che uno straniero può non conoscere, chiaramente. Non si tratta di un compromesso, sia chiaro, è più un processo di adattamento ai reciproci bisogni.
Si cerca di unire il messaggio che il film vuole trasmettere alle esigenze e alla richieste delle autorità; magari si taglia una scena o si omettono determinate cose, ma rientra tutto in una sorta di correzione positiva di quello che sarà il prodotto finale. L’obbiettivo è che funzioni, che piaccia e che trasmetta, pertanto il dialogo col ministro e con le autorità è essenziale. Loro sanno cosa va bene presentare e cosa no; non cambiano l’idea originale, ti aiutano solo a migliorarla in funzione della cultura che hai deciso di ritrarre.

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MS: Lida, sappiamo che Steve non è Cambogiano; è nato negli USA. Ciò nonostante è riuscito a ritrarre la realtà di un paese che non conosceva a pieno con intelligenza.
Cosa ne pensi del suo modo di raccontare una terra e una cultura che non gli appartengono?
Tu sei nata in Cambogia, quindi nessuno meglio di te potrebbe dare un giudizio sul suo operato.

Lida: Il prodotto finale rispetta la realtà. Steve mi ha coinvolta a pieno e si è consultato molto con me su come relazionarsi a una cultura che non era sua. Eravamo sullo stesso piano e si è mostrato molto aperto a conoscere e a colmare eventuali lacune.  Se aveva dubbi su quali fossero gli elementi che meglio potessero rappresentare il mondo cambogiano non esitava a chiedere il mio parere. Io gli ho spiegato quali fossero le abitudini, i modi dei cambogiani; d’altro canto lui mi ha illustrato le sue idee in merito a determinate scene e a come voleva che venissero girate. Così facendo siamo riusciti a condividere idee e conoscenze diverse, frutto di diversi sostrati culturali e il prodotto finale ne ha beneficiato. Inoltre, siamo stati aiutati da un paio di assistant directors – chiaramente del posto – il cui aiuto è stato prezioso per “istruire” Steve su cosa fosse meglio riprendere e perché.

MS: Steve, parlando di barriere di comunicazione, hai trovato difficile rapportarti a Lida durante le riprese di Dreamland?

Steve: Assolutamente no. Eravamo sempre insieme, tutti quanti, come un normalissimo gruppo di amici che ridono, scherzano e si scambiano pareri. La scelta dei Karaoke alla quale hai accennato prima è nata in particolar modo da questi momenti. É capitato che ci trovassimo davvero a parlare e condividere idee in un simile contesto ed è proprio da quel condividere che il film ha preso forma passo dopo passo. É stato un connubio di idee, un puzzle di opinioni diverse che abbiamo cercato di unire armoniosamente in un’unica rappresentazione.

MS: Steve, sembra che, con alcune riprese, tu voglia lanciare una critica al mondo occidentale e alla modernità come forza distruttrice di un’originalità ormai persa. Penso alle modelle fotografate dal co-protagonista Sokun, che si presentano tutte uguali; penso agli scorci d’architettura cittadina che hai ripreso dall’alto e che ritraggono larghe aree residenziale che seguono schemi standardizzati di costruzione.
É giusto pensare che in queste inquadrature ci sia una sottile denuncia al moderno inteso come sopruso del naturale, che per altro contrapponi come secondo termine di paragone in altre scene immerse nelle natura cambogiana?

Steve: Effettivamente il concetto della ripetizione è presente, ma l’intenzione era quella di utilizzarlo come rappresentazione del processo di recupero dei ricordi. La memoria in questo senso è come un pop-up che, a ripetizione, continua a tornare insistentemente su uno schermo, riportando a galla, stando all’analogia che intendevo comunicare, quel passato che risulta così difficile da dimenticare e che, inevitabilmente influisce sul presente.

MS: Qual è stato il tuo approccio con Lida, non tanto come attrice, ma come essere umano?

Steve: Ho scelto Lida dopo cinque secondi dopo averla vista al casting. Prima di vedere lei avevamo contatto altre attrici, anche più famose, ma la sua presenza non aveva eguali. Aveva un portamento e un approccio completamente diverso. Mi è piaciuta dal primo momento, così mi sono tolto il pensiero e l’abbiamo presa a bordo. Da allora siamo stati sempre insieme, per conoscerci e rendere la collaborazione fruttuosa e matura. Abbiamo usato le prime due settimane per imparare a relazionarci ed entrare in confidenza; abbiamo mangiato la pizza assieme, abbiamo girato e scherzato insieme. Ho cercato di essere il più naturale possibile con lei e con tutti i ragazzi che hanno collaborato alla produzione del film. Non eravamo figure professionali  a lavoro, eravamo amici che, assieme, prendevano parte alla creazione di qualcosa di nuovo.

a cura di Mattia Serrago

 

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