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Into the Woods

into locaQuando costruisci un sontuoso musical hollywoodiano facendovi convergere le storie di Cenerentola, Jack e la pianta di fagioli, Cappuccetto rosso e Raperonzolo, i rischi sono sostanzialmente due: o dirigi una cagata o dirigi una cagata. Non si scappa. Forse era proprio quello che passava per la testa di Rob Marshall quando accettò di realizzare il progetto. Il nostro aveva dato prova di grande bravura con l’interessante Chicago (2002), poi si era arenato con Memorie di una geisha (2005) per finire traghettato dalle parti de I pirati dei Caraibi capitolo vattelappesca. Sì, ci siamo capiti, Marshall è ormai uno stitico regista imbottito di soldi, soldi e ancora soldi, uno che se gli chiedi di produrre il sequel di Fracchia contro Dracula accetta felice come un grasso bambinone. Basta compilare assegni e regalargli un paio di canzoncine simpatiche per farlo danzare come la proverbiale scimmia di fronte all’organetto. Anche se in Into the Woods stranamente non si danza: non ci sono coreografie, soltanto motivetti e ariette da spettacolino parrocchiale, tutto collocato su uno sfondo di pacchianissime suggestioni neogotiche. Tipo Guillermo del Toro che incontra per errore Terry Gilliam.

into4Comunque questa volta la playlist gli è stata scritta da Stephen Sondheim, il genio di Broadway, il demiurgo dei grandi musical americani, il cantore dell’epopea a stelle e strisce. O almeno è quel che si racconta. Sondheim è quel tizio che nel 1979 scrisse e arrangiò per il palcoscenico il noto Sweeney Todd, a sua volta rimaneggiando testi e leggende metropolitane di epoche precedenti; nel 1986 ideò questo decisamente meno riuscito Into the Woods, che avrebbe dovuto già trovare una prima trasposizione cinematografica nel corso degli anni novanta, con grossi nomi del calibro di Robin Williams, Cher e Denny DeVito. La cosa non si fece, e probabilmente per ottime ragioni. A un certo punto la Disney decise di grattare il fondo del barile e recuperare questa sceneggiatura ormai dimenticata.

Che dire? Meryl Streep fa la parte di una brutta fattucchiera, salta dagli alberi, fa gli incantesimi e tutte quelle cose che si presume faccia una strega. Poi ci sono due panettieri, James Corden ed Emily Blunt, che partono canticchiando allegramente per un periglioso viaggio into the woods: lo scopo è quello di trovare alcuni oggetti fatati capaci di spezzare l’incantesimo che impedisce loro di mettere al mondo un figlio. Uno di questi oggetti è proprio la mantella di Cappuccetto rosso (Lilla Crawford), un altro è la vacca di Jack (Daniel Huttleston), un altro ancora una bionda ciocca di Raperonzolo (MacKenzie Mauzy). Naturalmente tutti questi personaggi, a cui aggiungiamo anche Cenerentola (Anna Kendrick) e le sue sorelle antipatiche giusto per non farsi mancare nulla, si ritroveranno ad attraversare la foresta e ad incocciare i due fornai per renderli beneficiari di quegli strumenti tanto preziosi.

into5O tempora o mores, come si è ridotta la Disney? Ve lo ricordate quel capolavoro della settima arte che era Alice nel paese delle meraviglie? No, non quella di Burton, proprio l’originale di Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wilfred Jackson del 1951. Pensiamo soltanto alla scena delle ostriche bambine e del tricheco pedofilo che con un sotterfugio finiva per portarsele a casa e papparsele in pochi bocconi: una scenetta da commedia degli equivoci che serviva a far divertire i minori insegnando loro a non fidarsi degli sconosciuti. Tutto il cinema Disney, all’epoca, era strutturato come un grande vademecum morale, un testo pieno di significati occulti (spesse volte sessuali), messaggi opportunamente paludati, modelli di riferimento per genitori e fanciulli attraverso i quali veicolare specifiche allegorie sulla crescita, la maturazione affettiva, il passaggio alla pubertà. Senza scomodare Freud e tutti i garbugli psicoanalitici di cui il ventesimo secolo è diventato il principale trampolino di lancio, come se tutto si riducesse alla libido e alle sue numerose forme espresse dall’inconscio, la Disney finiva per assumere il ruolo di una madre intelligente e protettiva, che utilizzava la fiaba come linguaggio privilegiato, la metafora come manifestazione del simbolo, il simbolo come chiave d’accesso per il mondo misterioso (e questo sì davvero esoterico) del bambino.

into3In Into the Woods non c’è niente di tutto questo, ogni cosa è urlata, stuprata, depauperata dal proprio originario bagaglio di immagini segrete e metafisiche, di forme e figure dell’Io. Rob Marshall compie un atto scellerato nei confronti del proprio pubblico, riduce la fiaba a un raccontino per genitori ignoranti e bambini cresciuti a Coca Cola e televisione. Persino il Lupo Cattivo (interpretato da un Johnny Depp parodia di Jack Sparrow) fa di tutto tranne che assumere il suo ruolo di Lupo Cattivo, e quindi pulsione irrequieta dell’Es, desiderio oscuro legato alla sessualità. E sapete che fine fa? Assassinato come per caso dal panettiere! Ma il meglio del peggio lo si raggiunge forse soltanto con il siparietto canterino dei due principini, quello di Cenerentola e quello decisamente più omosessuale di Raperonzolo (sguardo gay, capelli ossigenati e completo aderente in pelle nera). A un certo punto i due si trovano in cima a una cascata, cominciano a dichiarare il proprio amore per le rispettive amate spruzzandosi l’acqua tra loro, poi si sbottonano la camicia e mostrano un petto glabro come quello di una Barbie. Quando lo spasimante vestito di pelle salta a cavalcioni di una liana come un orango che gioca con il proprio pisello, capisci che un senso ci deve essere. Forse non troppo profondo, ma ci deve essere. Che Marshall volesse in realtà dirigere la versione musicarella di Brokeback Mountain? Per fortuna è un film della Disney, e una liana è pur sempre una liana.

Marco Marchetti

Into the Woods

Regia: Rob Marshall. Soggetto: Stephen Sondheim. Sceneggiatura: James Lapine. Fotografia: Dion Beebe. Montaggio: Wyath Smith. Musica: Stephen Sondheim. Interpreti: Meryl Streep, Emily Blunt, James Corden, Johnny Depp. Origine: USA, 2014. Durata: 124′.

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