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La douleur

ladouleurCi sono alcuni romanzi destinati al cinema, non perché – come sempre più spesso succede – l’opera letteraria abbia già in seno la sua trasposizione, compimento di un’operazione (peraltro lecita) che permette all’autore di monetizzare al massimo il suo ingegno; La douleur di Marguerite Duras arriva al cinema senza che l’autrice, con tutta probabilità, abbia mai pensato ad una seconda vita sullo schermo. Rimasto inedito per lungo tempo, questo diario intimo, questa cronaca di un dolore, è vissuto a lungo nelle segrete della scrittrice, protetto dalla discrezione con cui a volte si protegge un tormento profondo, e che peraltro sulla pagina ci è arrivato in frammenti, riletto e riassemblato dalla stessa Duras molti anni dopo. Sarà che il dolore ha più a che fare con la tenebra che con la luce, il diario trattiene qualcosa di opaco, incomprensibile, incompiuto anche nella forma, se lei stessa scrive a riguardo che “la stessa idea di letteratura deve risultare inappropriata”. Eppure, una volta pubblicato, La douleur ha cominciato ad attendere il cinema, pazientemente, seppur priva, la storia (anzi, le storie che lo compongono), di ingredienti narrativi dinamici. Un’attesa ripagata da Emmanuel Finkiel, il cui apprendistato nella bottega di Krzysztof Kieślowski deve aver generato la straordinaria capacità di trasformare in immagini l’invisibile. Il regista, che racconta di essere stato folgorato da La douleur a vent’anni, è riuscito a portare in superficie non solo l’angoscia esistenziale della scrittrice allo specchio, ma anche la desolante mortificazione di una città abituata alla vita, nella sua accezione più luminosa (Ville Lumière!), bloccata in un fermo immagine disgraziato che ha i contorni dell’occupazione.
douleur_melanieSiamo nel 1944, Parigi soffre l’assedio tedesco. Il Governo di Vichy collabora con la Gestapo per arrestare gli oppositori nel tentativo di fiaccare la Resistenza. La maggior parte finiscono in campi di smistamento e concentramento. Tra questi c’è Robert Antelme (Emmanuel Bourdieu), marito di Marguerite (Melanie Thierry) che, per nulla rassegnata a una probabile fine tragica del consorte, passa le giornate tra la penombra della sua abitazione e i tentativi di estorcere informazioni al collaborazionista Rabier (Benoît Magimel), che a sua volta cerca di arrivare attraverso la donna alle frange nascoste dei ribelli. Marguerite vive l’attesa di un ritorno sempre in bilico anche dopo la liberazione e, nonostante il conforto interessato di Dyonis (Benjamin Biolay), il miglior amico di Robert, sprofonda lentamente in uno stato depressivo alimentato dal dolore.
Sceneggiatore e regista, Finkiel coglie con precisione il tema ricorrente dello sdoppiamento, ovvero di un’unità che crea un doppio speculare e al tempo stesso altro: a cominciare dagli appunti di Marguerite (confessioni in forma diaristica, prima di essere romanzo compiuto, ovvero pensiero organizzato) che riletti dalla protagonista si fanno specchio del suo presente. La voice over di Marguerite è il corpo della pagina scritta che si sdoppia nell’immagine filmica che, in quanto immagine, gode di uno statuto proprio e quindi a volte si dissocia dalla parola. Finkiel per questo raddoppia Marguerite nei momenti più privati del film, quando il dolore si fa così insopportabile da doverlo confinare fuori dal proprio corpo, o meglio in un corpo da guardare a distanza, magari in struggenti tentativi, consolatori, di immaginare ciò che non c’è: il ritorno di Robert, ad esempio, una telefonata risolutiva, un fine lieto. Marguerite che osserva Marguerite e la descrive (in voice screen off) da fuori perde connotati surrealisti per farsi semplicemente espressione del dolore, della lacerante attesa, del peso insopportabile dell’assenza che si fa presenza in ogni angolo vuoto. E se ancora possiamo parlare di dissociazione è perché l’identità stessa della donna arriva a coincidere da una parte con il dolore, dall’altra con il senso di colpa che fa capolino quando inizia a comprendere che forse quello stesso dolore è causato dalla consapevolezza che l’amore va affievolendosi e che regge solo sulla mancanza (il paradosso di un marito che muore due volte).


L’attesa è un supplizio che porta verso la pazzia, una tortura che gira sull’indeterminazione, sull’interrogativo, ne sanno qualcosa le madri e le mogli dei desaparecidos. Finkiel saggiamente suggerisce la complessità del sentimento di Marguerite (magnifica Thierry), evitando spiegazioni inopportune che razionalizzino componenti ambivalenti. Lascia che il “disordine delle facoltà mentali” prevalga alimentato dall’assenza/presenza e al sospetto di un orrore più grande (quello dei campi di cui si saprà quindici anni dopo). Robert così rimane nascosto in un cono d’ombra, come pure la shoah: il suo corpo stremato è fuori campo, sarebbe stato altrimenti osceno, e solo dopo molto tempo avrebbe cominciato a raccontarsi, proprio come Primo Levi.

Alessandro Leone

La douleur

Sceneggiatura e regia: Emmanuel Finkiel. Fotografia: Alexis Kavyrchine. Montaggio: Sylvie Lager. Interpreti: Melanie Thierry, Benoît Magimel, Benjamin Biolay, Grégoire Leprince-Ringuet, Emmanuel Bourdieu. Origine: Francia, 2018. Durata: 127′.

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