Milano FF 2012

Milano Film Festival 2012: sguardi incrociati 4

Lo scontro tra Israele e Palestina in War Matador

Ebbene sì, va ribadito, la rassegna Colpe di stato del MFF 2012 non delude: War Matador (Matador Ha’mil’hama), docufilm girato da Avner Faingulernt e Macabit Abramson nel 2009 durante l’operazione Piombo Fuso, ci fa quasi vivere un incubo, ma di certo non lascia indifferenti. Lo scontro tra Israele e Palestina è guardato da fuori con l’occhio curioso e distaccato del turista. La telecamera segue a distanza l’alzarsi delle nuvole di fumo e di fosforo su Gaza, quasi uno sfondo surreale alle testimonianze di chi invece quella guerra la vive ogni giorno. La fotografia è volutamente non curata, le inquadrature traballanti da ripresa amatoriale, l’estetica cinematografica in secondo piano dà spazio alla potenza cruda delle parole, e soprattutto al senso della grande metafora che fa da filo conduttore. War Matador, già il titolo lo suggerisce, vuole infatti essere una lettura di un conflitto assolutamente anomalo, ma altrettanto assolutamente irresolubile com’è quello arabo-israeliano, secondo l’efficace immagine della corrida: è un conflitto fatto di continue provocazioni e reazioni, di vittorie e sconfitte effimere, che mai giungono a soluzione, ma sempre alimentano nuovi scontri. Quello che conta non è che si giunga ad una fine, ma solo che qui e ora, anche solo per poco, si abbia la meglio, fino alla prossima controffensiva. È la guerra per la guerra, la guerra che vuole indebolire, che vuole logorare e che si nutre della perversione più malata di questo sado-masochismo per cui in fondo ci si tiene sempre a un passo dal segnare una conclusione, per il piacere di veder soffrire l’avversario e poi guardarlo resuscitare con le sue ultime forze. Documentario di certo non mosso da intento puramente informativo, che trascura ogni contestualizzazione di tipo didattico-didascalico introducendo lo spettatore direttamente in medias res, con l’esplicita volontà di non essere né obiettivi, né esplicativi, ma di far emergere tutto il grottesco e l’assurdo di questo conflitto. Interessante, stimolante, un po’ inquietante, indubbiamente a tratti un po’ pesante, nonché complicato, War Matador non è il prodotto che lo spettatore medio di un festival di cinema si aspetta, e la sala semivuota ne è la conferma. Di certo, peccato per chi se l’è perso.

Dal concorso per lungometraggi

Il concorso lungometraggi ci propone due opere interessanti: Chocò (approfondimento a seguire, curato da Luca Scarafile) e Song and Moon (Xing Ge Zuo Yue), saggio di diploma all’università di Guandong della giovanissima regista cinese Wu Na. Un villaggio tradizionale della provincia di Guizhou, da cui il progresso, un po’ per ragioni culturali, un po’ per esigenze turistiche, è tenuto volutamente a distanza, e una giovane ragazza insoddisfatta, Xing, sono i protagonisti di questo film, che con estrema delicatezza vuole parlarci dei problemi e delle contraddizioni di un mondo e di una vita quasi da cartolina, che inevitabilmente si scontrano con il mondo esterno e le sue logiche. Certo, il desiderio di evasione di Xing, le sue prime esperienze amorose, le paure più o meno giustificate dei suoi familiari, il peso e il vincolo delle tradizioni, la fuga verso “la città” e il disilluso ritorno finale al villaggio, non sono certo le coordinate di una storia nuova, anzi, il tono del film potremmo dire che sia decisamente retorico. Ma ciò non toglie che la grazia del tocco, l’essenzialità di parole e gesti e la capacità quasi di evocare profumi e sapori di una terra così lontana garantiscano al film il merito di aver aperto uno scorcio nitido e di raro fascino su una realtà misteriosa che sa emergere in tutti i suoi più minuti e sottili dettagli. Non solo: sentimenti silenziosi e mai eccessivi, emozioni profonde ma composte, allusioni senza dichiarazioni, fanno del film, nonostante la banalità della storia in sé, un prodotto raffinato ed elegante, che, al di là delle vicende dei suoi protagonisti, fa emergere con rigore un contesto culturale ampio e complesso. Se per di più consideriamo che si tratta dell’opera prima di una regista appena venticinquenne, ci sentiamo ancor più in dovere di dirlo: ottimo lavoro.

dal MFF, Monica Cristini

Chocó di Jhonny Hendrix Hinestroza.

Storia lineare nel suo sviluppo, ma che mette sullo schermo uno spaccato di certo poco conosciuto, come quello di un paese sperduto nella foresta colombiana. Chocò è nera, vive in una baracca umida e poco accogliente. Ha due figli da accudire e un marito, un musicista nullafacente che passa le sue giornate a bere, dal quale riceve ogni giorno soltanto la violenza che è costretta a sopportare. Chochò è così per un verso la classica storia, non troppo originale, di buoni sentimenti, la storia di una madre bellissima che lotta con tutte le sue forze contro un destino avverso per dare un futuro diverso a se stessa e soprattutto ai propri figli.
Accanto alla semplicità narrativa della vicenda, comunque rappresentativa delle condizioni di degrado e discriminazione in cui sono costrette a vivere molte donne afro-colombiane, Hinestroza sa però offrire allo spettatore un’ammirevole accuratezza visiva. È allora l’oculata successione cromatica delle immagini a dare spessore ad un film che, altrimenti, rimarrebbe nella mediocrità di una storia commovente e non sempre troppo coinvolgente come tante. Colpiscono la predominanza inziale del grigio e del marrone, ma anche il successivo imporsi del verde, quello onnipresente della foresta che sembra inghiottire da ogni parte il villaggio e la vita di questa giovane madre: colori che sono lì a sottolineare il tormentato travaglio interiore di Chocó, il lento sopraggiungere della speranza alla rassegnazione. Ma a colpire è anche la forte emblematicità di alcune inquadrature che scandiscono l’evoluzione del film: il fuoco quasi di dannazione dell’inizio a cui fa da contrappunto quello catartico della fine, gli sguardi imperturbabili delle altre donne che assistono alla violenza che Chocó subisce quando tenta di dire basta alle continue umiliazioni del marito, l’esito assolutamente inaspettato della vicenda che nella sua dissacrante crudezza evita la banalità, perché rappresenta il concreto farsi strada della speranza nella violenza, senza ricadere in una retorica riconciliazione finale. Chocó si rivela così per quello che è: un film di fronte a cui l’impressione che questa storia mai vista assomigli a qualcosa di già visto troppo volte si alterna ad una sapiente emotività visiva, e che, almeno nel finale, sa fuggire la facilità della retorica e del lieto fine senza condizioni. Un film, nel complesso, comunque da vedere.

dal MFF, Luca Scarafile

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