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Piccola patria

Overlook Veneto 

All’orrore ci si arriva dall’alto, lentamente, da un punto d’osservazione lontano che ne scovi, se non l’origine, perlomeno la morfologia. Non si tratta di individuare l’appartamento tra centinaia di edifici di una grande città (rivedere l’incipit di Rosemary’Baby o L’esorcista, ad esempio), ma i confini di un territorio che si perde anonimo, omologato sulle fratture in un paesaggio che non è rurale e clip-1-piccola-patrianemmeno davvero urbano. Un hotel si contrappone come creatura estranea alla pianura di capannoni bassi. Potrebbe essere l’Overlook Veneto, popolato dalle vittime dannate del nord-est produttivo (epiteto obsoleto) e pragmatico, consacrato al sudore e allo schematismo del mattone-su-mattone, ovvero costruire per lasciare traccia senza farsi troppe domande sulla distanza concettuale che separa i termini vivere e sopravvivere.
Coadiuvato da una struttura produttiva orgogliosamente low-budget e forte di una lunga pratica come documentarista, Alessandro Rossetto approda alla sceneggiatura e alla regia di un film di finzione con sicurezza di mezzi e precisione di intenti. Piccola patria è un’opera plumbea, che chiede allo spettatore un’immersione progressiva nello sfascio di un territorio votato al lavoro (e quindi snaturato dalla crisi) e nei meccanismi di relazioni umane improntate su logiche utilitaristiche. Un quadro che vede protagonisti donne e uomini radicati da generazioni in uno spazio antropico trasformato dai flussi migratori, che se hanno rappresentato in passato bassa indispensabile manovalanza, adesso sono il terminale del disagio diffuso. L’albanese è trasformato in funzione sociale, capro espiatorio, colpevole di essere corpo stanziale, quindi presenza di cui liberarsi per ritrovare la quadratura (economica) di un cerchio che ha perso da tempo la sua geometria.
Il nord-est come polveriera: movimenti indipendentisti, la retorica patriottica nella dismisura del linguaggio dei leader, minoranze etniche e contrapposizione di istanze, lo spettro dell’impoverimento, lo spauracchio della protesta armata contro il fantasma delle istituzioni (ed è cronaca attuale).
Piccola patria condensa questi temi senza cadere nel didascalismo o, peggio, nella trappola ideologica di chi issa una bandiera e la inquadra per la durata di un film. Rossetto cambia lente alla sua macchina da presa e la trasforma in microscopio, raccoglie in un quadrato di terra un formicaio di uomini e donne che paiono girare in tondo, sognando sconfinamenti improbabili. Giovani e adulti, c_piccola-patria_articolo2sono esemplari che indifferentemente agiscono per accumulare schei, la roba che permette di ampliare casa, o acquistare due bestie in più, al limite di fuggire via dalla logica dell’accumulo e dell’investimento per il futuro, fino a quando il futuro termina nel più immobile e disperato presente.
Renata e Luisa sono pronte a lasciare per un dove che sappia di altrove (qualsiasi) la propria terra, a qualunque costo, con qualsiasi arma, architettando un ricatto ingenuo ad un malato di sesso, uno tra i tanti che individuano il proprio malessere nell’“invasore”. Il gioco delle due giovani donne coinvolge il fidanzato di Luisa, l’albanese Bilal, lavoratore regolare in un’azienda, che diventa strumento inconsapevole della macchinazione. La facilità con cui le ragazze si prostituiscono (con modalità diverse) per incastrare l’uomo e sua sorella (che sotto il materasso ha accumulato una discreta fortuna), spiazza e turba al tempo stesso. La pochezza delle motivazioni e lo svuotamento etico dei personaggi coinvolti non ci consegna alcuna morale, ma restituisce un microuniverso in declino, al di là della crisi o, per la precisione, non per colpa della crisi. Come se questa, invece, avesse solo acceso recrudescenze ataviche.
Il grigio di certi paesaggi resta dominante anche quando il sole illumina a sprazzi la scena. Il colore della gioventù annacqua nei solventi acidi della generazione che l’ha preceduta, e non basta lo sguardo di un vecchio che ancora ricorda ciò che fu, per trasformare la memoria in radice sana. Sembra il controcampo del primo film di Munzi Saimir. Lo stereotipo legato allo straniero, nei due film, sbiadisce con buona pace di chi disegna la realtà con contorni netti, a vantaggio dell’emozione della verità, che complica sempre la vita.

Alessandro Leone

Piccola patria

Regia: Alessandro Rossetto. Sceneggiatura: Caterina Serra, Alessandro Rossetto. Fotografia: Daniel Mazza. Montaggio: Jacopo Quadri. Interpreti: Maria Roveran, Roberta Da Soller, Vladimir Doda, Diego Ribon, Lucia Mascino. Origine: Italia, 2013. Durata: 110′.

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