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BARRY LYNDON quarant’anni dopo. Quando l’estetica de-estetizza

Barry wallpaperQuando nell’inverno del 1975 uscì nelle sale americane Barry Lyndon, Stanley Kubrick era già un regista affermato, entrato a pieno titolo nell’Olimpo dei grandi cineasti di sempre, con alle spalle pellicole del calibro di Orizzonti di gloria, 2001: Odissea dello spazio e Arancia meccanica, pietre miliari della storia della Settima arte.
Eppure il film fu accolto piuttosto freddamente ai botteghini, forse proprio per quel debordante estetismo alla base del quale, paradossalmente, la critica cinematografica rintraccia oggi il germe stesso del capolavoro.
A quarant’anni di distanza, la decima opera di Kubrick – riproposta in questi giorni nelle sale in una versione completamente restaurata – non smette di far parlare di sé e lascia ancora stupefatto il pubblico per l’incredibile potenza evocativa della forma, che dona alla pellicola una forza visiva che nemmeno lo straordinario I misteri del giardino di Compton House di quell’incredibile esteta di Peter Greenaway è riuscito a eguagliare. Il tutto sorretto da una ricerca filologica ossessiva che esalta quei principi ridondanti dell’estetica barocca su cui l’élite aristocratica settecentesca aveva costruito il proprio inconfondibile marchio di riconoscimento ed esclusività. Non deve stupire, perciò, se alla sua uscita il pubblico abbia faticato non poco a riconoscere il valore del film, come disorientato dall’esibizione d’inquadrature, carrelli e campi lunghi articolata e prolissa al punto tale da apparire quasi disarmonica. In Barry Lyndon, trama e contenuti narrativi sono volutamente sottomessi al superfluo,  in una sorta di staticità ritmica, quasi ipnotica, che rimanda direttamente all’immagine pittorica, all’interno della quale i personaggi sono quasi ridotti a manichini, a costumi carnevaleschi privi di anima e di iniziativa propria. I premi Oscar per la migliore fotografia (John Alcott), migliore scenografia (Roy Walker), migliori costumi (Milena Canonero e Ulla-Britt Söderlund) e migliore colonna sonora (Leonard Rosenmann) non fanno che attribuire ulteriore riconoscimento a questo preciso obiettivo di metodo.
Barry Lyndon 2Kubrick non si limita a raccontare il Settecento secondo un taglio storico tradizionale, ma insistendo, in modo talvolta didascalico, sull’impatto emotivo prodotto dalla forma, riesce a indagarne nel profondo l’intima inquietudine, facendo emergere lo spaccato di un mondo aristocratico in profonda crisi, corrotto dalle fondamenta dall’insinuarsi astuto della nuova classe emergente borghese, che nel giro di pochi decenni cambierà l’assetto dell’intera società occidentale.
Questo processo di decomposizione del vecchio mondo barocco è raccontato da Kubrick attraverso l’ascesa di Redmond Barry (Ryan O’Neil), un uomo senza arte né parte che, grazie alla propria spregiudicatezza e fortuna, si ritrova, in pochi anni, a passare dalla condizione di vagabondo disertore a giocatore d’azzardo nei più importanti salotti inglesi, fino ad assumere, di fatto, il titolo di Sir, grazie all’opportunistico matrimonio con la bella vedova Honoria Lyndon (Marisa Berenson). Redmond è la personificazione di un tarlo sociale che, introdottosi nel mondo aristocratico, ne erode le strutture portanti, facendo crollare lo splendido edificio di cartapesta su cui l’Ancien Règime aveva costruito le proprie auree e svianti bugie.
Ciò che Stanley Kubrick riesce a mettere in scena è la malinconica pantomima di una classe nobiliare che ha perso la frivolezza di un tempo, che non riesce più a trovare, negli eccessi dei propri sovraccarichi cerimoniali, quell’autoironia teatralizzante che ne aveva fatto il crogiolo del divertimento puro, dell’infantile egocentrismo generatore di seducenti illusioni.
Barry Lyndon 1Barry Lyndon descrive il potere corruttivo della noia, dell’assuefazione al bello; e lo fa attraverso la fioca luce di candele e lampade a olio, spettrale e mordace riflesso di quel mondo perfetto teorizzato dalla cultura dei lumi e del pensiero filosofico puro. Ma descrive altresì l’inconciliabilità logica tra due mondi intrinsecamente diversi, quello plebeo-borghese di Redmond e quello orgogliosamente ancorato al diritto di sangue di Lord Bullingdon (Leon Vitali), da cui non può che scaturire un conflitto feroce, senza possibilità di esiti costruttivi. In tale conflitto si rispecchia la stessa contraddittorietà dei comportamenti umani, già mostrata da Kubrick nei suoi precedenti film, ma con accenti qui completamente diversi, per certi versi allucinati, scevri da riferimenti ideologicamente individuabili. Barry Lyndon è un’opera che lascia volutamente lo spettatore con l’animo sospeso, in balia di un disorientante ed estenuante cromatismo di immagini sottratte alla loro naturale tonica, quantunque una tonica possa dirsi davvero naturale.
«Se guardi a lungo nell’abisso, l’abisso guarderà dentro di te», sembra essere il messaggio di Kubrick: un abisso di perfezioni che si susseguono conturbanti nell’illogica e autodistruttiva trama esistenziale dell’uomo moderno.

Manuel Farina

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