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Ritorno alla vita

ritorno-alla-vitaTomas (James Franco) è un giovane scrittore alla perenne ricerca di ispirazione. Quando in una serata invernale una slitta scende improvvisamente da un pendio innevato verso la strada, egli non può evitare l’impatto tra la sua auto e i corpicini di due fratellini, provocando la morte di uno dei due. Tomas non ha responsabilità oggettiva, come del resto la madre dei due fratellini e Christopher, il piccolo sopravvissuto. Eppure questo evento cambierà per sempre la sua esistenza: un sottile senso di colpa condizionerà i suoi amori ma, soprattutto, il suo rapporto con la scrittura.
Ritorno alla vita, l’ultima attesissima fatica di Wim Wenders, è la storia di questa colpa da scontare, della ricerca, lunga dodici anni, di un’espiazione difficile da raggiungere. In fondo Tomas non ha cercato la morte di quel bambino e nemmeno ha peccato di negligenza: quell’evento non è stato altro, per dirla con il gergo esistenziale di tutti i giorni, che una tragica fatalità. In fondo Tomas non si è risparmiato, si è fatto investire dal non-senso di quell’evento, ha tentato addirittura il suicidio, ha finito per scoprirsi legato alla madre e al fratello del bambino ucciso più che alle donne che ha scelto come compagne di vita. Insomma, il suo senso di colpa non poggia su alcun ragionevole motivo d’essere. Ma Wenders non è così banale: ritornonon costruisce un film psicologico semplicemente per ricordarci come spesso ci sentiamo responsabili di colpe che in realtà non ci possiamo imputare. Questo non è un film sull’opprimente insensatezza dell’esistenza (e sarebbe stato facile fermarsi lì), piuttosto è un film sul modo in cui scegliamo di affrontare tale insensatezza. C’è chi, infatti, come la mamma dei due fratellini, ha la forza di credere che in tutto quel dolore ci sia un senso: è l’atteggiamento di chi crede a un disegno divino a noi imperscrutabile. C’è chi, come Tomas, deve invece imparare faticosamente a convivere da solo con una colpa che sente di non poter scontare. Ma la vera forza di Wenders, ancora una volta, è andare in profondità: perché Tomas in un certo senso è davvero colpevole. Non certo per essersi trovato alla guida di una macchina in una fredda serata d’inverno, ma perché egli è innanzitutto uno scrittore e da quell’evento, tragico e insensato, riuscirà a trarre ispirazione. D’altra parte, ogni avvenimento è “sfruttabile” nella professione dello scrittore. Eppure aver trovato l’ispirazione in quel dolore significa, inevitabilmente, violentare quell’avvenimento a proprio uso e consumo. Ed è proprio quello che il film ci mostra, perché quell’incidente segnerà un punto di svolta nella verve creativa di Tomas, che da quel momento riuscirà finalmente a scrivere libri di successo. Sia chiaro, un lettore anonimo non può essere turbato da questa violenza, così sottile e subdola, ma Christopher, ancorato da sempre al ricordo della morte del fratello, è in grado di smascherare facilmente la presenza di quell’evento nei successi letterari di Tomas. È per questo che lo scrittore, ad anni di distanza, non vorrebbe concedergli nemmeno un incontro: è per questo che la relazione tra i due diventa alla fin fine la chiave di volta del film.
Wenders ha dichiarato spesso che tutte le sue storie cominciano dalle immagini, o meglio da quella manipolazione che permette di incastonare le ritorno_vita_immimmagini in una narrazione: nel cinema – spiegava in un saggio del 1982 – «narrare è forzare le immagini». Fortunatamente, anche questa volta il regista sembra non aver cambiato idea. Pur risultando un film talvolta troppo didascalico Ritorno alla vita non è privo della sua consueta attenzione estetica. E certo non per l’uso del 3D, che qui non raggiunge i picchi toccati con Pina e sembra non essere decisivo per la fruizione del film. Sono invece i colori (dal gelido bianco iniziale al verde sempre più caldo che ci guida verso la catarsi finale), l’accurata fotografia, un ritmato alternarsi di nitidezza e dissolvenze a farci sentire sulla nostra pelle tutta la pesantezza annebbiata del senso di colpa ma anche la leggerezza della sua espiazione.
Resta il fatto che narrare, nel cinema, significa per Wenders violentare immagini che per loro natura sfuggono al loro succedersi in una storia. Il regista fa con le immagini ciò che lo scrittore compie con pensieri e parole: forza la vita nell’ordine di una narrazione, manipola una vita che, insensata nel suo semplice accadere, non ci si offre mai imbrigliata nelle catene di una storia. Ed è qui appunto che il lavoro del cineasta, la manipolazione della vita, si affianca a quello dello scrittore: è qui che il lavoro estetico di Wenders si intreccia con la trama del film. Che il senso di colpa indagato da Wenders sia quello di uno scrittore non è un caso, anzi. Chi conosce il suo cammino nella storia del cinema lo sa bene: visti attraverso le vicende di un giornalista incapace di formulare un articolo, come in Alice nelle città, oppure attraverso i tormenti di un aspirante scrittore a spasso nella Germania per trovare la giusta ispirazione, come in Falso movimento, la narrazione e la capacità di costruire una storia sono una delle costanti del cinema wendersiano. Ritorno alla vita è allora un’opera matura, un film che forse smarrisce la freschezza della sceneggiatura del Wenders degli anni Settanta e Ottanta ma che ripropone, da una nuova angolatura, un leitmotiv con cui Wim si scontra da sempre, quel paradosso che irrompeva con piena consapevolezza ne Lo stato delle cose: «le storie esistono solo nelle storie; quanto alla vita, essa scorre nel tempo, senza il bisogno di creare delle storie».

C’è dunque l’affresco di un senso di colpa che si cristallizza nella vita di Tomas, un uomo come tanti. Ma, più in profondità, c’è un film nel film più difficile da comprendere, un film che fotografa la colpa, concreta e reale, che affligge il narratore, un cannibale di professione che si nutre senza ritegno, fino al midollo, della vita e persino del dolore più profondo che essa porta con sé. La costruzione di storie di cui il mestiere dello scrittore è l’emblema per eccellenza, è peraltro menzognera e, quindi, doppiamente colpevole: perché profana la vita nutrendosi di essa, perché ci riconsegna la vita dotata di un senso che essa non ha. Siamo così di fronte alla violenza sacrilega di Tomas, che trova la sua ispirazione letteraria nella morte di un bimbo. Siamo di fronte all’atteggiamento che ci spinge a raccontarci delle storie per trovare un senso in ciò che viviamo, colpevoli di infedeltà nei confronti della vita e della sua insensatezza. Ma questa è una colpa che ci accomuna tutti: ci raccontiamo delle storie per sopravvivere allo spaesamento di un senso che non c’è, proprio come ha fatto Tomas, a cui del resto è concessa la redenzione finale. Questo, infine, è da sempre il dilemma del Wenders regista, quello di uomo che, per sua stessa ammissione, «sembra incapace di credere alle storie, ma nel contempo non sa vivere senza».

Luca Scarafile

Ritorno alla vita (Every Thing Will Be Fine)

Regia: Wim Wenders. Sceneggiatura: Bjørn Olaf Johannessen. Fotografia: Benoît Debie. Montaggio: Toni Froschhammer. Musiche: Alexandre Desplat. Interpreti: James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams, Marie-Josée Croze. Origine: Germania/Canada/Francia/Svezia/Norvegia, 2015. Durata: 118’.

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