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Steve McQueen. 35 anniluce fa

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Steve McQueen ha rappresentato una leggenda per chi ha vissuto la stagione meravigliosa della Nuova Hollywood, tra gli anni ’60 e i ’70. La sua stella non si è spenta per una overdose di eroina, un suicidio, un incidente stradale sotto i fumi dell’alcol, ma a causa di un “banale” tumore ai polmoni, quando la sua carriera straordinaria l’avrebbe consegnato ai ruoli della cosiddetta maturità artistica. Aveva 50 anni.
Le auto e le moto però le amava, soprattutto dopo aver lavorato nel mediocre Le 24 ore di Le Mans. In La Grande Fuga di John Sturges (film del ‘63 che lo consacrò definitivamente) la moto, in fuga dal lager, la cavalcò personalmente, senza controfigura. Del resto McQueen, oltre ad essere uno straordinario attore, era anche un cascatore come pochi. Professionista completo le ossa se le era fatte in strada, poi in riformatorio (scelta materna, poiché il padre scelse invece di abbandonare la famiglia quando Steve era piccolissimo), in seguito nei Marines: tre anni in cui si segnalò per un atto eroico, perché personaggio McQueen lo era nella vita Vera, prima che sullo Bullitt_1968schermo.
Lo capì certamente Sturges, con cui girò altre pellicole tra cui I magnifici sette, ma lo capirono Siegel (il bellissimo L’inferno è per gli eroi), Jewison (Cincinnati Kid e Il caso Thomas Crown) e soprattutto Sam Peckinpah, che ne esaltò il talento con due film indimenticabili del ’72: L’ultimo Buscadero e Getaway!. Il primo un post-western di frontiera, dove Steve/Junior Bonner, sulle orme di un padre mito del rodeo e giramondo, si scaraventa sui tori per conquistare una gloria effimera e amara, sullo sfondo di un’America divisa tra sogno di libertà e valori familiari; Getaway, sulla scia del meraviglioso Gangster Story di Penn, offre a McQueen ancora una fuga: questa volta verso il Messico, in compagnia della splendida Ali MacGraw (che sarà poi sua seconda moglie), lasciandosi alle spalle una scia di sangue. Peckinpah, regista fuori dagli schemi e dal carattere difficile, coglie la carica emotiva di Steve, la sua capacità di parlare con una semplice smorfia, il disincanto nel volto (rivedere il personaggio di Junior) e al tempo stesso l’energia espressa dal corpo.
magnifici_sette_steve_mcqueenDal tenente Bullit al comandante dei pompieri nel kolossal catastrofico dei tanti divi L’inferno di cristallo, fino all’ultimo The Hunter, quando nell’80 il cancro lo aveva già condannato. McQueen ha permesso ai suoi registi un’essenzialità nella costruzione dei dialoghi, per la capacità di comunicare con lo spettatore attraverso lo sguardo, di suggerire senza rivelare, di sottintendere una complessità che permetteva all’eroe di sfumare nell’uomo. Troppo lontano dalle tenebrosità decadenti del maledetto ribelle, per chiedere al destino una fine cinematografica ad alta velocità, che tanto amava, alla Dean o alla Pollock – di quelle fini che ti consegnano alla memoria collettiva – il volto di McQueen, a rivederlo oggi ancora buca lo schermo, alla faccia di chi ha dimenticato che il suo film è finito il 7 novembre di 35 anni fa.

Alessandro Leone

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