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Taxi Teheran: tra sordido realismo e disincantata poesia

TaxipanahiFinalmente anche nelle sale italiane il vincitore del 65° Festival internazionale del cinema di Berlino: il percorso di un taxi attraverso le strade di Teheran che si tramuta nella rappresentazione disillusa e ironica della società iraniana contemporanea. Ecco Taxi Teheran, vera e propria sfida lanciata e raccolta dal regista Jafar Panahi. Sfida concreta alla censura anzitutto: visto che su Panahi, già arrestato nel 2010 per la sua partecipazione alle proteste contro la Repubblica islamica iraniana, grava il divieto di dirigere o produrre film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste e viaggiare all’estero per vent’anni. Ma anche, e forse ancor più, sfida cinematografica: quella di dare rappresentazione “tangibile” alla censura, alla condizione vigilata in cui il regista è costretto a girare, senza per questo ricadere nella cronaca e nei canoni freddi di un certo stile documentaristico. Perché le cifre dei condannati a morte dal regime sciita (l’Iran è secondo solo alla Cina per esecuzioni capitali), la ripresa delle proteste soffocate dall’esercito iraniano avrebbero certo impressionato, ma avrebbero anche rischiato di accatastarsi nella memoria dello spettatore accanto alle immagini raccapriccianti di tanti regimi e di tante repressioni, immagini che ogni giorno subiamo quasi senza più stupirci. Il rischio sarebbe stato quello di sottoporci ancora una volta ad una violenza capace di turbarci qualche istante, una violenza che avremmo presto finito per dare per scontata. Panahi invece cerca il realismo, la realtà “fisica” di quelle vite che un regime cerca di orchestrare minuziosamente, senza accatastare morte, dolore, numeri di condanne, senza riproporre sentenze basate sulla legge islamica, per risvegliarci dalla nostra abitudine alla violenza, dalla nostra anestesia emotiva.
Ma come fare? Come raccontare la propria condizione di regista censurato in uno stato capace di condannare a morte due ragazzi per uno scippo? Panahi sceglie di riprendere se stesso nei panni di un taxista quasi improvvisato che gira per le vie di Teheran. Due telecamere sono poste sul cruscotto dell’auto e da quel taxi, o dal suo orizzonte di veduta, allo spettatore non è mai concesso di uscire. Ad essere rappresentato, o per meglio dire documentato, è uno spazio chiuso, quello di un taxi come quello della censura, in uno spazio aperto, quello delle vie di Teheran come quello di un futuro che potrà essere diverso.

A salire e scendere dallo spazio ristretto di quel taxi sono personaggi diversissimi fra loro, è la composita società iraniana ben ordinata nelle Taxiteherangriglie che un regime le ha imposto. Ci sono un uomo della strada, strenuo difensore della pena di morte come unica via verso l’epurazione della società; un goffo venditore di dvd illegali; due donne alle prese con due pesci rossi da abbandonare in un fiume; un marito morente e una moglie che teme di non vedersi riconosciuto alcun diritto all’eredità; una giovane avvocatessa alle prese con la difesa di alcune ragazze che hanno avuto l’unica colpa di farsi trovare nei pressi di uno stadio (rimando al precedente Off-Side). Insomma, c’è tutta la società iraniana: la Shari’ah come legge inoppugnabile, le sue superstizioni, la paura di denunciare un furto che sarebbe punito con la morte dei ladri, le contraddizioni di una vita sempre più intrisa di tecnologia ma sempre più controllata. Ma c’è soprattutto una ragazzina, la giovane nipote del regista che deve realizzare un breve filmato per la scuola. Già, perché a lei sono state insegnate dal regime le regole che rendono un film “distribuibile”, quelle regole con cui Panahi ha dovuto spesso fare i conti: nessun contatto tra uomo e donna, nessun cattivo con la barba ma solo in giacca e cravatta come ogni rispettabile occidentale, nessuna traccia di quel “sordido realismo” che minerebbe le fondamenta di una comunità retta dalla legge islamica.
Ed è proprio quel realismo sordido e colpevole lo scopo dichiarato e raggiunto da Panahi: il cinema è una lente che permette di osservare una realtà opprimente oggi come non mai. Ma se sordido è uno sguardo d’intesa tra un uomo e una donna, se sordido è il cinema di Woody Allen o una ragazza senza velo, che cosa resta al regista per confrontarsi con la sua arte? Nulla e lo spettatore può sperimentarlo con i suoi occhi attraverso i tentativi della spigliata nipotina del regista alle prese con il suo primo filmato. La sua piccola fotocamera, il tòpos classico del cinema nel cinema diventa così lo strumento attraverso cui avvertiamo sulla nostra pelle le catene di una censura onnipresente, quelle catene che Panahi ha spezzato collezionando negli ultimi anni riconoscimenti internazionali, ma che per questo non sono oggi più dolci o più accettabili. La realtà che è costretto a vivere è, e rimane, un carcere, una prigione rispetto a cui ogni film del regista iraniano rappresenta un nuovo tentativo di evasione. Ma non si evade strillando o illudendosi nella riuscita di brusche rotture, si evade documentando una realtà che, se a qualcuno può apparire sordida e malata, ad altri può sembrare profetica nel suo portare con sé i germi di un cambiamento che sembra inevitabile. È questo il fil rouge del cinema di Panahi, una continuità di intenti testimoniata anche dalle autocitazioni per nulla autocelebrative a Oro rossoLo specchio e al già menzionato Offside: Jafar_taxi“militare” senza pretendere di spiegare e senza impressionare, limitandosi a far vedere ciò che il regime non vuole vedere. Una militanza ironica e pacifica come lo sguardo bonario ma non rassegnato del regista che rappresenta se stesso.
Taxi Teheran riesce così a far implodere i confini tra documentario e finzione per raggiungere un realismo che non disdegna di farci sorridere e, soprattutto, di guardare speranzoso al futuro grazie ad un monito che irrompe, forse inaspettato, nel film: quello a cogliere la poesia là dove gli altri scorgono soltanto un realismo sordido e pericoloso. Ecco allora il lento piano sequenza finale: una rosa rossa è in primo piano, poggiata sul cruscotto del taxi, dietro di essa sfumano le figure di Panahi e della nipotina prima del nero della censura, tanto opprimente quando attuale, con cui si chiude un film a cui il regime iraniano non ha concesso nemmeno i titoli di coda. Ecco allora l’ultimo grido d’amore per il proprio popolo, l’esortazione ad alzare la testa, ma anche e soprattutto un sentito grido d’amore per il cinema, per il suo farci intuire poeticamente la possibilità dove tutto sembra chiuso e condannato ad una costante assenza di cambiamento. Così, mentre i fanatici dell’Isis filmano la crudezza dell’esecuzione delle proprie vittime secondo canoni hollywoodiani che non possono stupirci, il realismo ironico e poetico di Panahi appare oggi forse come il più forte degli antidoti che il cinema è in grado di offrirci contro una diffusa rassegnazione alla violenza e all’oppressione.

Luca Scarafile

Taxi Teheran

Regia e sceneggiatura: Jafar Panahi. Interpreti: Jafar Panahi. Origine: Iran, 2015. Durata: 82′.

https://vimeo.com/129425861

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