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The Bay

the bay locaIl cinema horror dell’ultima decade ha tematizzato, più e meglio di altri generi, la crisi dello sguardo contemporaneo, e per farlo ha lavorato almeno in due direzioni principali: il rinnovamento del linguaggio filmico, che forse per la prima volta ha rinunciato alla linearità per farsi confuso, frammentario, volutamente ambivalente, e la molteplicità dei punti di vista, che non sempre ma molto spesso, si incastrano l’uno nell’altro per raccontare la stessa storia ma in modo diverso. The Bay, a dispetto del titolo un po’ fighetto, sembra a tratti un compendio accademico su quella che è (diventata) l’estetica della paura in territorio americano: videocamere puntate ovunque, nell’assolato porto estivo di Chesapeake Bay; una comunità formicolante che si è riunita per festeggiare il quattro luglio e abbuffarsi di pesce e crostacei; il propagarsi improvviso di una mostruosa epidemia a base di orribili animaletti che divorano i corpi dall’interno; e un’impavida universitaria che, camera e microfono alla mano, da giornalista di costume si trasforma suo malgrado nella reporter del secolo. Tutto qui. Il film di Barry Levinson (regista inutile come Marc Forster, ma come Marc Forster onnipresente) non supera se non di poche spanne lo stitico canovaccio abbozzato da Michael Wallach. Peccato, perché l’idea di costruire un mockumentary narrato “accidentalmente” dalla comune semiosfera elettronica (cellulari, telecamere di sicurezza, filmati di repertorio) poteva avere anche le sue ragioni, ma il risultato è troppo simile alla versione più colta ed elitaria di Cloverfield (2008) per appassionare veramente. Si muore quasi sempre fuori campo e l’epidemia non mostra altro che qualche gamba rosicchiata, macchie di vescicole e un grappolo di pustole che di tanto in tanto si prende anche la briga di scoppiare.the bay1

Il problema principale non è, però, la pudicizia del suo autore, che racconta per ellissi, abbandonandosi con compiaciuta solerzia a lunghe divagazioni scientifiche, bensì l’incongruenza tra i due grandi registri della pellicola: da una parte il privato, con questa studentessa (una più bella che brava Kether Donohue) che se ne va a zonzo per la cittadina, parlando, disquisendo e ragionando sull’accaduto, dall’altra il lato pubblico e collettivo della storia, con la pandemia che scoppia in maniera troppo silenziosa perché nessuno se ne accorga. Sembra che chiunque attenda soltanto di farsi contaminare, e benché l’emergenza sia sotto gli occhi di tutti, nessun reparto speciale dell’esercito interviene a gestire la situazione, nessuna squadra ministeriale viene inviata per comprenderne le ragioni; e se lo scopo dei potenti è, come dichiarato in apertura, occultare la verità, alla fine i motivi di questa strategia non sono chiari e nemmeno logici. Così i parassiti che divorano i propri ospiti, depositando larve disgustose nei loro tessuti, sono relegati sullo sfondo, facendo soltanto qualche sporadica apparizione, chi deve morire, muore, chi indaga sulla vicenda, indaga senza concludere nulla, e naturalmente chi è deceduto resta tale, accatastato per strade e marciapiedi. La Donohue vorrebbe rubare il posto ad Àngela Vidal, ma il paragone con la giornalista di Rec è impari, così come del tutto pasticciato resta il confronto tra i due focolai epidemici: geniale quello di Jaume Balguerò e Paco Plaza, banale, già visto e tremendamente prevedibile quello di Levinson. Sarebbe bastato sfrondare la narrazione dei suoi eccessi, potare le ramificazioni non richieste, preservare i germogli più profumati e staccare un bel po’ di ramoscelli rinsecchiti. Ma Levinson non ci sta, e preferisce darsi arie da intellettuale mancato, spiegando l’inverosimile, sottolineando il pathos a dispetto dell’azione, ingarbugliando mille racconti, relazioni ed episodi del tutto ingiustificati. Sì, c’è anche la citazione palese di Infection (2005) di Albert Pyun. E allora? Tanto, caro Barry, quel film non l’ha visto nessuno.

Marco Marchetti

The Bay

Regia: Barry Levinson. Sceneggiatura: Michael Wallach. Fotografia: Josh Nussbaum. Montaggio: Aaron Yanes. Musica: Marcelo Zarvos. Interpreti: Kether Donohue, Kristen Connolly, Christopher Dennham, Anthony Reynolds, Jane McNeill. Origine: USA, UK, Canada. Durata: 101′.

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