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Tra cinque minuti in scena: incontro con gli autori

trailer-tra-cinque-minuti-in-scenaGianna ha cinquant’anni, vive con l’anziana madre continuamente bisognosa d’assistenza. Gianna è quindi costretta a fare da “genitore” alla propria madre e nel poco tempo libero lavora come attrice in una pièce teatrale nella quale interpreta una donna nella sua stessa condizione. Ma la crisi non risparmia nessuno e la compagnia teatrale deve affrontare l’incertezza economica dovuta alla scomparsa del principale finanziatore dello spettacolo.
Sorriso e poesia sono gli ingredienti del primo lungometraggio di Laura Chiossone, che sceglie di raccontare la vera storia di Gianna Coletti, protagonista della pellicola, e di sua madre Anna. Gli argomenti della riflessione si spostano con aggraziata leggerezza dall’arte alla difficoltà di prendersi costantemente cura delle persone amate. Documentario e fiction si accordano per affrontare  un tema sicuramente non facile, ma estremamente importante e coinvolgente. Tra cinque minuti in scena è un film indipendente che ha il coraggio di rivolgersi davvero alle persone, facendo riferimento alla quotidianità, dote sempre più rara nel cinema contemporaneo italiano. Anche il gioco di scatole cinesi per il quale il teatro imita la vita di Gianna come personaggio, ed il cinema ripercorre l’esistenza di Gianna come persona, rappresenta una trovata arguta nella sua semplicità. Il pubblico ha premiato l’originalità di  sguardo del film al festival Il Cinema Italiano Visto da Milano 2013.

A seguire proponiamo una breve intervista alla regista Laura Chiossone e al produttore Marco Malfi Chindemi.

Partiamo dalla storia, la trama del tuo film prende spunto dalle vicende di Gianna Coletti, che è anche l’attrice protagonista, e di sua madre Anna, anche lei presente nella pellicola. Quale rapporto hai avuto nei confronti di un materiale umano così delicato? È stato difficile mantenere la giusta distanza con la storia?
LC: Il film parte da loro. Gianna mi raccontava in lunghe e comiche mail le sue rocambolesche difficoltà nell’occuparsi della madre anziana non più autonoma, ma è dopo aver conosciuto Anna, la mamma, che me ne sono “innamorata”. È una donna con una forza vitale che ti strappa l’anima! Ho cercato di avere nei loro confronti uno sguardo rispettoso, onesto, presente, intimo ma mai patetico o retorico.

È raro che ad un produttore italiano venga riconosciuta la paternità di un soggetto. Come ha incontrato questa storia e come ha deciso di affidarla a Laura Chiossone?
MM: È vero che è raro trovare produttori che firmano il soggetto di un film, ma in questa occasione è stato molto semplice. Anche perché il feeling che produttore e regista hanno avuto sul set credo sia stato eccezionale. Un asse portante e strutturale che è stato alla base di tutte le altre scelte.
Credo di essere ancorato a una vecchia ed utopistica idea di produttore, cioè di colui che in qualche modo accende una miccia e imposta una linea editoriale. Non è un creativo propriamente detto, ma una persona che intravede una possibilità di sviluppo, uno spunto da far esplodere, un talento da crescere.
E così è stato per Tra cinque minuti in scena. Quando Laura mi ha fatto vedere il materiale tra Gianna e sua madre per un documentario, mi è sembrato così bello, così vitale, così umano che mi è stato impossibile non vederne già un film. Quindi ne ho parlato subito con Laura, l’entusiasmo ci ha preso la mano e il resto è venuto da sé, in modo diretto e preciso.

Il film celebra la poetica del corpo, come dimostrano alcune scene, tra cui quella d’apertura ed il tra-cinque-minuti-in-scena-gianna-colettirapporto di alcuni personaggi con gli specchi nei camerini. Come hai sviluppato questa linea narrativa, anche considerando la tua giovane età?
LC: Certo molto distante dalla reverenda età di Anna, ma non sono così giovane… ho quasi 40 anni, e sono quasi 13 anni ormai che faccio regia. Il corpo in un modo o nell’altro è sempre stato il punto di partenza dei miei lavori più personali, in fondo faccio la regista perché voglio attraversare la pelle delle persone e vedere cosa hanno dentro.

Questo è il tuo primo lungometraggio di fiction, eppure la struttura narrativa è davvero complessa: il teatro imita la vita di Gianna personaggio, mentre il cinema imita la vita di Gianna come persona reale. Un’idea davvero interessante, come ti è venuta?
LC: La regia è innanzitutto un gioco di linguaggi, usare diversi registri l’inscena, il fuoriscena, la realtà, è un modo per ragionare sulla regia stessa, è divertente! Il meccanismo della rappresentazione è qualcosa su cui come regista rifletto costantemente. In questo caso poi l’idea creativa si è sposata con la possibilità stessa di riuscire a trarne un lungometraggio. Fare un film in Italia oggi non è semplice, usare il documentario e il teatro per costruire parte del film mi ha permesso di essere agile, indipendente, veloce.

Quanto è difficile in Italia oggi produrre un’opera prima?
MM: La produzione cinematografica è sempre stata difficile perché prevede, rispetto ad altri mestieri artistici, un coinvolgimento di persone e mezzi non indifferenti. Esattamente la cosa più difficile che possa accadere in questo periodo di crisi. Credo quindi che solo una grande passione ed un grande amore possano essere da stimolo per questa avventura, che per me è incredibilmente emozionante.

Che immagine di Milano vorresti restituire con quest’opera?
LC: Tutto il mio amore per la Milano vera, che è stata mediaticamente cancellata da questi anni bui politicamente e culturalmente, la Milano che è fatta di gente bellissima con generosità d’animo e senso dell’autoironia.

Già nelle prime proiezioni ai festival il film, pur non avendo star di punta ed essendo il primo lungometraggio di Laura Chiossone, ha toccato profondamente gli spettatori. Secondo Lei questo è sintomatico del fatto che il pubblico italiano è più cinefilo ed attento di quanto comunemente si pensi?
MM: Il pubblico italiano, come tutto il paese, vive momenti di grandi lacerazioni. Il nostro è un film indipendente e se avessimo dovuto aspettare l’ingresso di strutture importanti saremmo ancora lì, perché il film non rientrava e non rientra in un’ottica dominante di mercato: la commedia.
Il mercato deve essere aperto e contenere tutti i generi. Di certo non c’è e non ci può essere competizione tra Tra cinque minuti in scena e Iron Man, ma io come spettatore sono contento di poter vedere tutte e due.
Allora torniamo alle reazioni del pubblico, che ci danno il polso della situazione, e le do ragione quando dice che si riscontrano emozioni profonde, sincere e vive.
Il film riesce a toccare corde intime con leggerezza e ironia. E non credo che il pubblico lo dimenticherà facilmente.

Nel film il teatro sembra essere per Gianna l’unico luogo nel quale poter condividere i suoi problemi e dove potersi sfogare. Credi sia questa la funzione dell’arte? Speri che il tuo film diventi un’occasione di confronto per persone con problemi simili?
LC: Il teatro è il lavoro di Gianna, è il luogo delle sue relazioni, quindi è qui che lei trova energia e confronto, ma credo che tutti quelli che hanno la fortuna di essere riusciti a fare un lavoro che amano, che sia questo artistico o meno vivano le stesse sensazioni. Sicuramente il film è un’occasione per fare rete tra chi si trova improvvisamente genitore del proprio genitore, una situazione piuttosto comune oggi, che andiamo verso un invecchiamento sempre più estremo. È stata proprio la risposta del pubblico che dopo le prime proiezioni ai festival ci ringraziava per aver parlato di questo tipo di relazioni, che abbiamo pensato di creare un blog proprio per raccogliere le storie di tanti: http://www.mammaacarico.com. In effetti è un tema un po’ tabù, ma il film riuscendo a parlarne con un tono di “leggerezza” lo sdogana.

Per ulteriori info: http://www.tracinqueminutiinscena.it

 a cura di Giulia Colella

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