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UN CINEMA DA «FORSENNARE». ANTONIN ARTAUD NELLO SPECCHIO DELLA CINEMATOGRAFIA DI BUSTER KEATON E LEOS CARAX

È possibile concepire il Cinema al di fuori dei modelli narrativi classici? È lecito immaginarlo spogliato dell’incipit, dell’argomentazione, del climax e dell’epilogo? È realistico pensarlo liberato dalla tirannide dei contenuti, dalla trama e dalle manie di protagonismo dei registi?
Per anni sono stato fermamente convinto che la perfezione cinematografica fosse rappresentata dal modello americano degli anni ’50, con il suo inconfondibile ritmo aristotelico, le solidissime sceneggiature, i piani sequenza perfetti, i magnifici attori forgiati dal metodo Stanislavskij; e questo perché mi rendevo conto che per quanto, fin dall’epoca del muto, si fossero dimostrate preziose le opere di molti autori indipendenti, nessuna di queste era mai riuscita a conseguire un modello teorico propriamente detto, capace cioè di spingersi oltre la mera sperimentazione o la banale provocazione ideologica, e resistere così nel tempo.
Antonin Artaud ha, di fatto, smentito tutti i miei convincimenti. Al contrario di molti avanguardisti della sua epoca, infatti, egli non si è limitato a demolire il vecchio sistema compositivo ottocentesco, ma si è altresì sforzato di edificare sulle sue macerie una disciplina rigorosa, dotata di regole formali proprie.
Tale processo di decostruzione e ricostruzione è riassumibile nel concetto di «soggettile». Esso è da intendersi come una sorta di materiale preesistente, di substrato su cui esercitare violenza o, come direbbe Artaud, da «forsennare». Nel caso della parola, il «forsennamento» si configura quale vera e propria frantumazione del vocabolo, il cui risultato non è soltanto l’emersione di termini dotati a loro volta di significato – forsennato, for, fort, force, fors e nato – o di soggiacenze – or, hors, sort –, ma altresì la formazione di onomatopee «abracadabriche», il cui senso è evocato dal suono stesso, al di là dei meccanismi di significazione tipici delle lingue parlate.
Sorte analoga è riservata alla corporeità: stralunamenti meccanici di occhi, smorfie di labbra, contrazioni spasmodiche di muscoli, movimento orizzontale della testa da una spalla all’altra, come se scivolasse su una rotaia; tutto concorre a trasformare l’attore in una sorta di «geroglifico in movimento», in una forma che violenta ripetutamente se stessa e che, attraverso i passaggi da una condizione all’altra, dà avvio a dissociate evoluzioni atte a ristabilire il legame «fra ciò che è e ciò che non è, fra la virtualità del possibile e ciò che esiste nella natura materializzata».
Quello che Artaud ha in mente è un’«architettura spirituale» emancipata dal realismo mimetico del teatro classico, all’interno della quale musica, gesti, movimenti e parole competono a creare un linguaggio di tipo ritualistico, simile alla danza balinese, capace cioè di stabilire «posizioni mimiche per ogni circostanza della vita», irrealisticamente accostate al preciso scopo di produrre un effetto di straniamento. Perché un simile effetto si attui però, è necessario che la messa in scena sia pensata nei termini di un congegno perfetto, in cui tutto si conforma, dall’insieme ai minimi particolari. «Le evoluzioni dei personaggi», scrive Artaud, «le loro entrate e uscite, i loro scontri, il loro incrociarsi saranno regolati una volta per tutte con meticolosa precisione che arriverà a prevedere, se possibile, anche il caso». Ne deriva un «continuo gioco di specchi» ispiranti doppi inconfessati, che non si risolvono in sintesi totalizzanti, ma che trovano la loro ragion d’essere nell’illogicità stessa del conflitto, nelle «onde di materia» corporea in divenire, nella spinta verso l’esterno di una crudeltà latente attraverso la quale si localizzano «tutte le possibilità perverse dello spirito». Il teatro deve dunque «farsi uguale alla vita, non alla vita individuale, a quell’aspetto individuale della vita in cui trionfano i caratteri, bensì a una vita liberata, che spazza via l’individualità umana e in cui l’uomo non è più che un riflesso». L’obiettivo è pervenire a «un’idea magica elementare», germinale, che, Buster Keaton e Charlotte Greenwood (Parlor, Bedroom and Bath)in quanto tale, appartiene alla realtà solo nella misura in cui se ne discosta. Artaud mira dunque a rendere palpabili «non tanto le cose del sentimento, quanto quelle dell’intelligenza», facendo della falsificazione astratta del gesto il principio scatenante della passione. Si tratta di un’operazione squisitamente intellettiva, che seduce proprio per il distacco dal contesto che sembra intenzionata a riprodurre, quasi a volerlo ridicolizzare.
Buster Keaton è stato forse il primo cineasta a intuire questo meccanismo. I suoi personaggi sono quasi sempre inadeguati, goffi; scivolano, inciampano, si scontrano con porte e persone, sembrano non riuscire a modularsi alla realtà fisica che li circonda, e quando plasticamente vi si adeguano, stimolati dal pungolo amoroso, finiscono per non far corrispondere il gesto con l’espressività richiesta, accompagnando la passionalità di un abbraccio tanto bramato a uno sguardo del tutto assente, quasi annoiato. Gli innamorati dei film di Keaton sono figure appiccicate a contesti estranei, mimanti situazioni anelate, ma non reali. La comicità nasce proprio da questo contrasto con un mondo scivoloso, che il Buster di The Cameraman non riesce neppure a rappresentare con la cinepresa, se non attraverso schizofreniche dissolvenze di onde marine che invadono strade di città, di automobili che si compenetrano seguendo sensi di marcia convergenti, o puerili effetti rewind in cui nuotatori piombano nell’acqua e rimbalzano di nuovo sul trampolino. Solo con una lunga pratica, e con l’aiuto determinante di una scimmia, Buster riesce a domare gli eventi, mostrandone però il lato corrotto, violento, che tanto piace agli sciacalli affatturanti dell’editoria giornalistica.
Per Artaud, il teatro, e quindi il Cinema, non può essere concepito come mero intrattenimento, né come catarsi. Esso è, al contrario, una forma di contagio rituale, una rivelazione, un’esperienza simile al parto, creativa e dolorosa al tempo stesso; è un «ribollimento caotico» che trasforma il soggetto in oggetto e viceversa, legando attore e spettatore in un rapporto di condivisione indissolubile. Nel rito, infatti, l’officiante necessita del fedele quanto il fedele dell’officiante, perché tra loro s’instaura un legame speciale, intimo, religioso. «La bellezza sta nell’occhio di chi guarda», si dice a un certo punto del film Holy Motors di Leos Carax. «E se non c’è più nessuno da guardare?». È questa la domanda rivelatrice.
Sono in molti nella storia del Cinema a essersi avvicinati, più o meno volutamente, all’idea artaudiana di messa in scena. Holy Motors - Motion captureDalle evocazioni sadoerotiche del primo Buñuel alle giostre di uomini, mostri e manichini insanguinati di Jodorowsky, dai mondi allucinati di Lynch e Cronenberg ai recenti non sense sinestetici di Gondry, ognuno ha raccontato il forsennamento del «soggettile» secondo la propria sensibilità; e tuttavia, nessuno come Carax è riuscito ad applicarne le dinamiche con tanta sistematica dedizione.
Ricco uomo d’affari, povera mendicante, padre premuroso, mostro che si aggira nei cimiteri, vecchio sul letto di morte, i personaggi di Carax non travalicano soltanto l’individualità e la sessualità, deflagrano letteralmente, mettendosi al sevizio della motion capture del rito. Non esiste più il buono e il cattivo o il bene e il male, esiste semplicemente una «realtà ambita», fatta di personaggi sottratti al logos, che interpretano ruoli solo per il piacere e il dovere di creare.
Holy Motors è un Bal Musette cinematografico, un luogo elettivo di follia «caosmica», all’interno della quale è la forma a ispirare il contenuto, non il contrario.
In un Cinema ancora regolato dal principio tonica-dominante, da logiche unitarie, il corpo dell’attore si riprende il ruolo di protagonista, costringendo la trama a seguire la multiformità schizoide di ruoli che s’impongono da soli, figli di un’estetica primordiale: l’estetica del rito, l’estetica atonale dello spirito.

Manuel Farina

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