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Venere in pelliccia. Sessualità e potere da Euripide a Polański

La commedia del masochismo 

Dei tanti spunti che offre l’ultimo, bellissimo film di Roman Polański, Venere in pelliccia, un aspetto di sicuro interesse è dato dal finale, dove la vicenda del romanzo di von Sacher-Masoch, su cui è basata la pièce che il protagonista Thomas sta allestendo, s’intreccia con le Baccanti di Euripide.
Venus im Pelz, pubblicato dallo scrittore austriaco Leopold von Sacher-Masoch nel 1870, quando Freud aveva solo quattordici anni, può essere considerato, dopo i libri del marchese de Sade, uno dei testi-base delle perversioni sessuali che, qualche decennio più tardi, la psicoanalisi s’incaricherà di studiare con scrupolo scientifico.
Von Masoch, tra i primi nella storia della letteratura occidentale, mette in scena la sessualità in termini moderni, chiamando in causa concetti venre in pellicciadestinati a diventare noti, di lì a breve, grazie alla psicoanalisi: pulsione, repressione, rimozione, negazione, sublimazione, perversione, ecc. Lo scrittore li tratta attraverso la forma letteraria che della modernità è l’espressione stessa: il romanzo, genere borghese e realistico per eccellenza.
La realtà, però, entra fin da subito in un rapporto ambiguo con il mito: la Venere del titolo è la donna del dipinto che il protagonista Severin idolatra e che rivede nella disinibita giovane vedova, Wanda, con la quale intreccia una relazione anomala. E il tentativo di nobilitare la realtà attraverso il mito produce un corto circuito che, a dispetto del finale consolatorio del romanzo, rivela l’intrinseca ambivalenza dei desideri sessuali, su cui, sempre per restare in ambiente austriaco, si eserciterà, diversi decenni più tardi, Arthur Schnitlzer, a sua volta fonte di ispirazione di registi come Ophüls e Kubrick.
Polański, che a sua volta trae il film dall’adattamento teatrale del romanzo di von Masoch fatto da David Ives, co-sceneggiatore della stessa pellicola, riporta la storia di Severin (che qui diventa il regista Thomas) e di Wanda (l’attricetta Vanda che arriva a provini già chiusi) al teatro, creando un gioco di scatole cinesi che complica notevolmente i piani del discorso. Non c’è, infatti, solo il passaggio da un testo narrativo a un testo drammatico, ma quest’ultimo è, a sua volta, inquadrato nella cornice cinematografica che racchiude il tutto.
Recuperando l’unità di tempo, di luogo e d’azione, Polański finge di dare struttura teatrale al film, che in realtà acquista una dimensione metateatrale in uno scmabio continuo tra realtà e finzione necessariamente estraneo al romanzo.
In questo senso, la sovrapposizione tra la storia dei personaggi romanzeschi di von Masoch, già sdoppiati nei ruoli cinematografici del regista e dell’attrice, e le Baccanti introduce un ulteriore straniamento. Quando Vanda recita versi euripidei girando intorno a Thomas che, novello Penteo,venere in pelliccia2 se ne sta impotente in mezzo al palco legato a un cactus di scena, il rapporto ambiguo tra sesso e dominio, tema portante della vicenda, acquista sfumature nuove.
Il fatto è che le Baccanti, ultima tragedia euripidea, è l’opera che è stata da molti studiosi considerata il punto di non ritorno della tragedia greca come espressione di un conflitto tra l’uomo e la divinità, conflitto che prevede il sacrificio e la punizione di chi ha trasgredito le leggi religiose ma che, al contempo, una volta risolto, funge da garanzia per gli altri uomini. Ma nelle Baccanti la legge divina, di cui le Baccanti sono le interpreti, appare particolarmente disumana, fondata com’è esclusivamente sulla furia dell’ebbrezza, non temperata dalla pietà per chi ha sbagliato. Il povero Penteo è la vittima, umiliata e sottomessa, del nuovo dominio di un dio, Dioniso, di cui Euripide mette in luce quasi soltanto i tratti più terribili e vendicativi.
Ora, Dioniso è il protettore stesso della tragedia greca (gli spettacoli teatrali nell’Atene del V secolo si svolgevano durante feste in suo onore e al suo culto è connessa l’origine stessa del teatro classico), ma il Dioniso di Euripide appare, per crudeltà, spirito di vendetta e veemenza tirannica, privo di quella capacità di conciliare la necessità di riaffermare la superiorità degli dei sull’arbitrio degli uomini con la ragionevolezza delle stesse leggi divine che si devono ristabilire.
Penteo non viene solo, giustamente, sconfitto per essersi opposto al culto di Dioniso nella città di Tebe, su cui egli regna. Allorché il dio lo conduce di nascosto a spiare i misteriosi riti che le Baccanti praticano sul monte Citerone, il re, nel momento in cui accetta, nonostante la consapevolezza che la vista di quello spettacolo gli arrecherà dolore, mostra un atteggiamento riconducibile, com’è stato osservato (se n’è occupato, tra gli altri, già nel 1974, Guido Paduano, nel suo Euripide. La situazione dell’eroe tragico), nella categoria freudiana della negazione: dietro la misoginia, che lo ha fin qui caratterizzato, si celerebbe dunque il desiderio. E, infatti, una volta travestito da donna, Penteo assume atteggiamenti femminili, immedesimandosi a tal punto nei nuovi panni da non accorgersi che sarà proprio questo a condurlo alla rovina.
La modernità della tragedia euripidea è esaltata proprio dalla constatazione che la sessualità è inscindibile dal potere e che non può essere disciplinata con leggi che contemperino umano e divino. Penteo, costretto a vestire panni femminili e dunque a subire il massimo grado di sottomissione sessuale prima di essere fatto a pezzi dalle Baccanti, è davvero un eroe lacerato, la cui regalità si annulla con l’annullamento della venere-in-pelliccia-seigner-amalricsua virilità. Persa la sua identità (o, sempre freudianamente, acquisita forse una nuova identità, oggetto finora di rimozione), il re di Tebe non può che perdere anche il suo ruolo, che non apparirebbe più credibile agli occhi dei sudditi.
Proprio il sovvertimento dei ruoli, il cui rispetto è alla base della sessualità antica, ci immette, non senza lo smarrimento perturbante che accompagna una scoperta di tale portata, nella sessualità moderna, consentendoci di chiarire meglio il senso dell’accostamento tra il romanzo di von Masoch e la tragedia euripidea nel film di Polański. La liberazione delle pulsioni, trasferita dal contesto mitologico della Tebe di Penteo all’ambiente borghese della Vienna storica, si ferma sulla soglia della tragedia, stingendo in un dramma interiore, in una lacerazione intima, in un’alterazione psicologica che può esprimersi soltanto, una volta trasferita a teatro e poi al cinema, nelle forme più prosaiche della messa in scena, della recita, della commedia.
E così, quando Vanda, dopo aver tormentato a lungo Thomas stuzzicandolo sulle sue debolezze psicosessuali, lo lascia solo sul palco allontanandosi da dove se n’era venuta, anche noi spettatori abbiamo un’idea più chiara di come, da Euripide a von Masoch a Polański, si sia consumato il passaggio della sessualità da questione ambigua e problematica in grado di sovvertire il potere pubblico a un gioco di ruoli che si sperimenta nel privato delle relazioni e che può condurre non già alla morte (come accade a Penteo) e nemmeno alla realizzazione, finalmente svincolata dalle frustrazioni borghesi, delle perversioni di dominazione e sottomissione (come succede a Severin), ma, tutt’al più, al sogghignante ludibrio degli spettatori di una sala cinematografica.

Roberto Mandile

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