Percorsi

PRIMA DELLA PIOGGIA, quando il disegno del destino non chiude il cerchio

A poco più di un mese dall’inizio dell’edizione numero 70 della Mostra del Cinema di Venezia, pubblichiamo il suggestivo percorso di Manuel Farina che ha come terminale il film di Milcho Manchevski che si aggiudicò il Leone d’Oro nel 1994.

L’idea che ognuno di noi dipenda in qualche modo dalla volontà e dalle decisioni altrui è radicata nella cultura occidentale fin dai tempi antichi. Questo “altro” è immaginato all’origine come un insieme di divinità, dal cui capriccio dipendono le sorti degli uomini. Gli dèi greci arcaici, ad esempio, non rappresentano, come comunemente si crede, la personificazione dei sentimenti e degli umori degli uomini ma, al contrario, sono gli uomini a personificare i sentimenti e gli umori degli dèi. Basti pensare ai personaggi omerici, i quali non dispongono mai di emozioni proprie, ma agiscono a seconda del surplus di energia che i numi introducono nel loro ventre, condizionandone a forza le condotte. Qualche secolo più tardi, la tragedia il tempo non muoreattica, in particolare Sofocle ed Eschilo, rielabora questa visione fatalistica dandole una connotazione più eroica, ossia pur seguitando a considerare gli esseri umani in balia di poteri superiori, li dota di una coscienza individuale, in virtù della quale essi sono in grado di prendere atto della propria condizione, senza però riuscire a sovvertirla. L’eroe diventa, quindi, capace di pensare autonomamente, ma non di impugnare il proprio destino. Il suo sacrificio acquisisce, pertanto, valore tragico, poiché consumato in modo consapevole nell’ambito di una lotta impari contro forze invincibili.
Più tardi, i Sofisti, forse proprio in razione a tale visione cosmica opprimente, introducono un’idea rivoluzionaria, affermando che all’individuo non è dato di pervenire alla conoscenza oggettiva delle cose, di conseguenza il suo ragionare sulla realtà dipende esclusivamente dalla rappresentazione mentale che egli elabora, secondo un quadro del tutto arbitrario, alterato, bugiardo, che varia in base alle circostanze. Pensiero e parola, quindi, hanno solo il potere di significare l’emozione del momento, e da strumenti di verità si convertono in mezzi squisitamente creativi. In tale prospettiva, l’uomo non ha più bisogno di sentirsi libero ontologicamente, lo diventa attraverso la finzione artistica. «Chi inganna agisce meglio di chi non inganna», scrive Plutarco riferendosi alla filosofia di Gorgia. Si tratta di una menzogna poetica naturalmente, la stessa di cui parlerà Antonin Artaud secoli dopo, nei suoi crudeli deliri.

Chi, da adolescente, non ha immaginato di essere il prodotto del sogno di qualcun altro? Chi non ha fantasticato intorno a mondi irreali, liberandosi per un attimo dell’idea moralistica di bene e di male, così da esprimere la migliore (o la peggiore) parte di sé, e scoprirsi chiaroveggente, nel momento in cui le proprie fantasie si avveravano? Scrive Luis Borges:

Lo sapevano tutti e tre.
Lei era la compagna di Kafka.
Kafka l’aveva sognata.
Lo sapevano tutti e tre.
Lui era l’amico di Kafka.
Kafka lo aveva sognato.
Lo sapevano tutti e tre.
La donna disse all’amico:
Voglio che questa notte tu mi ami.
Lo sapevano tutti e tre.
L’uomo le rispose: Se pecchiamo, Kafka cesserà di sognarci.
Uno lo seppe.
Non c’era nessun altro sulla terra.
Kafka si disse:
Adesso che i due sono partiti, io resto solo.
Cesserò di sognarmi.

Con la fine della cultura antica, sono venute poi a imporsi le più disparate dottrine riscattatrici, capeggiate dal principio del libero arbitrio, secondo cui sarebbe la volontà individuale, armata di razionalità e discernimento, a determinare le sorti dell’uomo. La colpa più grave imputabile a questi nuovi modelli, non è tanto di aver tradito sul nascere le legittime aspirazioni di emancipazione dell’uomo imponendo il primato della Grazia sulla carità, Prima_della_pioggiaquanto di essere riusciti a ridurre quelle pulsioni vitali e irrazionali che avevano contraddistinto le gesta degli eroi antichi, a un misero principium individuationis negativo, il Diavolo: un male spogliato persino di quell’ironia di cui faceva grottescamente sfoggio la figura ebraica di Satana nel libro di Giobbe, assisa a pieno titolo con Dio sugli scranni del tribunale celeste, e ora declassata a ruolo di macchietta nel teatrino d’avanspettacolo della demonologia. La psicoanalisi, col suo dogma dell’inconscio, non ha fatto che completare lo scempio, depotenziando ulteriormente lo spirito dionisiaco antico, fino a ridurlo a mera necessità, ossia, parafrasando Deleuze, a subdola mancanza di natura economicistica.

Ma v’è un’altra visione, forse la più sconvolgente di tutte, a essersi imposta in Occidente. Essa porta con sé un male nuovo, una forza silente e impersonale che, togliendo alla vita il velo del mistero, conduce l’individuo a uno stato di prostrazione e solitudine da cui è impossibile rialzarsi. È il male della depressione, l’atteggiamento di chi non trova più gusto e bellezza in niente; di chi non nutre più aspettative, tanto si è convinto dell’inutilità di affannarsi «sotto il sole». «Come potrei ammettere di non essere fatto per la vita, quando in realtà è la vita a non essere fatta per me?», scrive Emil Cioran.

Il film Prima della pioggia, del regista montenegrino Milcho Manchevski, si muove su questa falsariga. Strutturata secondo uno schema circolare, quasi a sottolineare la stanca ripetitività del disagio umano, la pellicola descrive tre storie diverse, tenute insieme non tanto da una cronologia di eventi, quanto da un disagio esistenziale comune, che costringe i personaggi a un vagare senza meta, costellato da odio e rancore millenari.
Per Manchevski, infatti, la violenza trionfa sempre, ma in modo subdolo, Locandina-Prima-della-pioggiaannunciando il proprio arrivo con inquietanti segnali nell’animo, esattamente come vento e nuvole scure annunciano all’orizzonte l’imminenza della pioggia. «Laggiù piove già», dice un anziano monaco all’inizio e alla fine del film, proprio a indicare l’incombenza di un malessere privo di forma e sostanza.
Le contrapposizioni tra cristiani e musulmani, montenegrini e albanesi, progresso e tradizione indicano semplici parvenze, sfondi di cartapesta destinati ad afflosciarsi alle prime gocce di pioggia e alla tempesta di brutalità che ne deriva, la quale appare doppiamente subdola perché, oltre a essere rimuginata per un’intera vita, si compie servendosi non di nemici dichiarati, non di villains alla Riccardo III, né di santi capovolti alla Iago, ma delle persone più prossime, le persone care, quelle da cui gli uomini si attenderebbero maggiore comprensione, in un marasma di relazioni e consuetudini all’interno del quale il male si confonde col bene, gli inseguitori con gli inseguiti, l’amore con la vendetta.
Alla fine, sono gli stessi personaggi del film a comprendere l’inutilità dell’affanno umano, a cominciare dalla fanciulla albanese – attorno cui ruota l’intera vicenda – quando, a terra morente, fa cenno al giovane che ha tentato di salvarla di non disperarsi per il fallimento, perché l’oscuro potere della pioggia permea la terra e la sostanza stessa degli uomini, fin dall’inizio dei tempi. L’intero film è racchiuso in questo sguardo sublime.
Il modo in cui Manchevski descrive l’incombenza del dolore è sconcertante. Egli alterna dolcezza e orrore con spregiudicato e ossimorico estetismo.
Qualcuno potrebbe chiedersi quale sia il senso di tanta raffinata crudeltà. Credo lo si possa rintracciare ancora una volta nelle parole di Cioran, quando afferma: «Amo il pensiero che conserva un profumo di sangue e di carne, e a una vuota astrazione preferisco mille volte una riflessione sorta da un’esaltazione dei sensi o da una depressione nervosa». Se è vero, infatti, che al male manchevskiano non si dà un’eidetica, è altresì vero che coloro che lo subiscono sono «verità che vive», esseri concreti, pulsanti, che si nutrono di penosi, quanto minuziosi, dettagli quotidiani, e attraverso il grido dell’angoscia, si elevano sulla sterile mediocrità delle gioie a buon mercato a testimoniare la propria presenza; perché «chiunque non ami gli stati caotici non è un creatore, chiunque disprezzi gli stati morbosi non ha diritto di parlare dello spirito».

Manuel Farina

Topics
Vedi altro

Articoli correlati

Lascia un commento

Back to top button
Close