Presentato alla 20esima Festa del Cinema di Roma, Tienimi presente è il film di esordio, totalmente autobiografico, del 28enne Alberto Palmiero. Diplomato in regia al Centro sperimentale di cinematografia, racconta l’impossibilità di lavorare nel mondo del cinema a Roma e la conseguente decisione di tornare a vivere dai genitori ad Aversa. Tutti gli attori recitano nei panni di se stessi: il protagonista-regista, i suoi amici, il collega del Centro sperimentale che è riuscito a farsi produrre un film, il regista Bellocchio e il produttore Arcopinto (che hanno prodotto davvero il film), i familiari nella città d’origine (genitori, zii, cugini).
Come già Diciannove di Giovanni Tortorici e Troppo azzurro di Filippo Barbagallo, questo film è un esordio autobiografico con un protagonista (maschio) avvilito (in metro un vecchio gli cede il posto a sedere perché lo vede stanco) e simpatico, in profondo conflitto con le proprie aspirazioni lavorative e con le aspettative del mondo degli adulti, al quale non riesce ad accedere.
Il senso di spaesamento di Alberto viene reso insistendo sulla durata delle scene di raccordo dove, come nella vita del protagonista, sostanzialmente non succede nulla: Alberto che cammina nello spiazzo vuoto davanti alla stazione trascinandosi il trolley, Alberto che compra un singolo pacco di pasta nel negozietto sotto casa, gli amici a Pasquetta che fanno conversazioni sconclusionate, i viaggi in auto su piccole utilitarie, i pasti che sono sempre miseri (il risotto alla zucca liofilizzato) e dei quali solo il regista che è riuscito a esordire ha l’ardire di lamentarsi («ma la prossima volta fai almeno una pasta al pomodoro, è semplice!»). Con questa scelta stilistica il regista mette in scena allegoricamente la passività e le piccolezze attorno alle quali ruota la vita del protagonista, miserie quotidiane in totale contrasto con le sue specularmente grandiose aspirazioni da regista.
Il tutto è filtrato attraverso un’ironia costante, leggera e divertente, che è il tratto espressivo che accomuna tutta la generazione dei registi che oggi hanno tra i venti e i trent’anni: hanno completamente interiorizzato lo scetticismo di un contesto che non crede in loro, e lo esprimono in una dissacrazione ironica che pervade tutto, come un’inguaribile sindrome dell’impostore.
Le frequenti incursioni del protagonista a Napoli dipingono una Campania preda della stessa confusione allegra e senza sbocchi in cui è incastrato il protagonista. Viene mostrata come una terra ingenua, immersa nel folklore religioso (le bambine vestite da angioletti, appese sulla folla, che recitano l’Ave Maria quasi urlando nel microfono), dove il lavoro è insoddisfacente (i giovani si dedicano al volantinaggio, a fare i baristi nel bar dei genitori, allo smart working in pigiama, i più fortunati emigrano in Australia o a Milano), con il solito entusiasmo per il calcio e l’interesse per l’arte relegato a piccoli cineforum dove si assegnano premi a forma di mela con l’applausometro.
La generazione dei boomer, e cioè dei genitori, è irrimediabilmente diversa da quella dei figli: i genitori non capiscono la loro frustrazione, e però li amano lo stesso (la madre vede Alberto triste, lo fa sedere sul letto e gli prepara una camomilla) e ne sono riamati a loro volta. La distanza non porta al rancore, allo scontro generazionale, che sembra ormai relegato ad altre epoche (si pensi ad esempio alla violenza nel film di esordio del qui produttore Marco Bellocchio, I pugni in tasca, che è del 1965).
Il protagonista, nonostante la profonda crisi esistenziale in cui si trova immerso dichiaratamente, rimane sempre innocuo, anche nell’aspetto: testa incassata tra le spalle, sorriso tenero e movenze buffe, si accompagna a un cagnolino.
Questa tenerezza quasi infantile disinnesca qualsiasi conflitto, ma non è ingenuità, perché il disincanto sembra qui l’unico modo sensato di muoversi in un mondo dove è difficile trovare una strada maestra, sicura, (con buona pace dei genitori che credono ancora, davvero vecchi in questo, che la chiave del successo esistenziale sia adottare un’elementare pragmaticità – la madre esorta il padre: «Glielo dici tu [a nostro figlio] che ci vuole concretezza nella vita?!»). Questa posa in remissione rivela una grande lucidità sul mondo, che è confuso tanto quanto lo è Alberto. E infatti è un amico insoddisfatto e apparentemente inetto quanto il protagonista– fa l’informatico, lavora in pigiama in smart working, e si chiede «ma è vita questa?!» – a restituirgli la fiducia nelle sue aspirazioni con un discorso semplice ma non retorico. Non sembra casuale che dopo questo confronto, grazie al quale Alberto recupera la speranza, Palmiero indugi su un’inquadratura da vero regista: Capri al tramonto, lontana e poetica su un mare violetto e lucente.
Questo, come tanti altri film di esordienti o semi-esordienti (Pif, Pietro Castellitto, i già citati Tortorici e Barbagallo) appaiono scanzonati ma sono in realtà asserzioni forti. Mettendosi in gioco in prima persona questi attori-registi mostrano la legittima ambizione di costruire delle opere omnie, con le quali hanno da dire non su un singolo aspetto della realtà o su una singola storia, ma su tutto il mondo, e da una prospettiva personalissima.
Il contesto inteso come punto di riferimento al quale fare affidamento è crollato, non c’è più una cornice narrativa nella quale abbia senso inserirsi, e perciò si autoassegnano l’ambizioso e giusto compito di ricostruire tutto, e cioè, cinematograficamente parlando, di parlare di tutto.
Il film è così ben riuscito che è un peccato non aver visto di più, non aver seguito Alberto nel suo ritorno a Roma per continuare a credere nel sogno di fare cinema. Ma forse è giusto che questo film si chiuda con la sua partenza da Aversa: se la speranza è rinata, significa che è finito anche il momento del film autobiografico dove l’autore è ripiegato su sé stesso suo malgrado. È arrivato invece il momento di fare un altro genere di film, più adulto, dove Alberto non è più agito dal mondo, ma dove il regista Palmisano lo riplasma, raccontando storie che vanno oltre la sua personale storia.
da Roma, Roberta Bennato




