Il fascino (in)discreto di una famiglia borghese. George Schöber (Ulrich Mühe), il padre; Anna (Susanne Lothar), la madre; il figlioletto Schorschi (Stefan Clapczynski) e un cane, Rolfi. Le regole dei giochi. Siamo negli anni Novanta, in Austria: gli Schöber, come di consueto, si apprestano a trascorrere le vacanze nella loro candida casa al lago. L’origine del male. Con il pretesto di voler prendere in prestito delle uova, i giovani Paul (Arno Frisch) e Peter (Frank Giering) entrano (o vengono invitati a entrare?) in casa Schöber e, in un’escalation di violenza sempre più efferata, obbligano George, Anna e Schorschi a essere protagonisti dei loro ossimorici funny games.
Cannes, maggio 1997. Michael Haneke (Monaco, 1942), regista oggi considerato, seppur di origine tedesca, uno tra i più noti esponenti del cinema austriaco contemporaneo, presenta in concorso alla 50a edizione del Festival di Cannes il suo quarto lungometraggio, Funny Games (Id., 1997)[1].

Austria, maggio 1989. Jörg Haider (1950 – 2008) viene eletto governatore della Carinzia; si tratta dello stesso Haider il cui partito, il Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ), promosse, come rappresentante dell’estrema destra austriaca, un’azione politica populista e nazionalista venata di sentimenti antisemiti e xenofobi, se non razzisti. Alla Croisette si assiste invece all’esordio alla regia di Haneke (tardivo, a quarantasette anni), con un lungometraggio, sempre in concorso, dal titolo Il settimo continente (Der siebente Kontinent, 1989).
Sono otto gli anni di differenza tra quest’ultima opera e Funny Games, eppure, se paragonate nei temi e nello stile, esse non potrebbero essere più contigue; una coerenza resa inequivocabile dalla scelta di Haneke dell’omonimia dei protagonisti. Antesignani della futura famiglia Schöber di Funny Games, Georg (o George) e Anna rappresentano il ‘volto borghese’ de Il settimo continente; unica differenza: il personaggio di Eva, figlia della coppia e corrispettivo femminile del successivo Schorschi.
Quanto Michael Haneke mette in scena in queste opere sono, citando il saggio di Franco Marineo Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni (2014), «[…] le immaginette di un ordine apparente, di un ideale di felicità che si compone di un vuoto solo parzialmente colmato dal giardino ordinato, dall’automobile pulita, dall’atroce freddezza dei rapporti umani». Quest’insieme di status symbol caratteristici della famiglia borghese ‘bene’ sono tuttavia, in quest’universo di significato, nient’altro che un vano tentativo di tamponare un vuoto mai strutturalmente tale, in quanto gravido di un male certamente nascosto ma non per questo meno reale (e pericoloso).
Regista programmaticamente impegnato e storico (ossia storicamente collocato), regista di un male sia evenemenziale[2] sia universale in quanto, sempre per Marineo, «putrefazione morale degli esseri umani» e delle loro relazioni (soprattutto familiari), in Funny Games Haneke personifica quest’istanza maligna nei personaggi di Paul e Peter. Come ricorda anche Lorenzo Rossi in Michael Haneke: lo spazio bianco. Cinema, storia e immagini del presente (2014), gli aguzzini vengono invitati dagli Schöber a entrare (o a uscire) attraverso quell’inquietante ambiguità rappresentata dal buco nella recinzione[3], «[…] metafora [dell’]esistenza di una crepa nel muro del sistema sociale». Conclude Rossi, «L’invito a lasciar entrare il male è dunque il gesto più determinante – e tragico – fra quelli cui assistiamo nel film. […] In ultima analisi rende esplicito come sia la famiglia la vera causa scatenante della violenza».
La violenza (dall’unione dei termini latini vis, forza, e -uléntus, eccesso) appare pertanto nell’opera hanekiana, e in primis in Funny Games, come l’unico idioma possibile[4]: una sorta di ‘lingua franca’ a regolare i rapporti sia tra i personaggi rappresentati sia tra immagine filmica e spettatore (o sguardo); considerando quest’ultimi anche a livello formale e non solamente contenutistico.
Date queste premesse, non stupisce affatto che violento sia l’agire tanto di Paul e Peter, aguzzini e veri e propri registi del massacro, quanto della stessa famiglia Schöber; ma, osserva Leonardo Gandini in Voglio vedere il sangue. La violenza nel cinema contemporaneo (2014), violento è anche l’agire di un auteur che, come Haneke, sceglie di «[chiudere] gli occhi allo spettatore, materialmente impossibilitato a guardare la violenza». Detto in altri termini, i Funny Games esistono perché Paul e Peter sanno di essere guardati, ma Haneke impedisce allo spettatore di ricambiare questo sguardo.

Di questa propria ‘politica’ di rappresentazione (politica in quanto programmaticamente e polemicamente contraria a una certa tendenza visivamente pornografica che Haneke identifica con un certo cinema americano o orientale contemporanei)[5] il regista austriaco non fa mistero, dichiarandola attraverso numerose interpellazioni [6] e ‘rotture della quarta parete’. A questo proposito, impossibile non citare la famosa sequenza ‘del telecomando’ dove attraverso, appunto, un telecomando della televisione, Haneke permette a Paul un rewind (in senso letterale, un riavvolgimento) della scena. Grazie a questo espediente, a venire negati dal regista Paul/Haneke sono sia il gesto di Anna che, impossessatasi poco prima di un fucile, uccide Peter (non a caso, nota Rossi, unico gesto violento visibile e ascrivibile a una delle vittime) sia un’intera estetica contemporanea dell’immagine violenta; estetica che, spiega Gandini, a partire dalla New Hollywood degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha fatto del montaggio «detonatore visivo della violenza», della «calligrafia della violenza» e, in generale, dell’eccedenza e spettacolarità del sangue il proprio modus operandi.
Quindi, come rappresentare una violenza non-rappresentabile? Due sono gli strumenti usati dal regista austriaco: il fuori campo e il suono.
Se il primo, in quanto non-luogo cinematografico e, pertanto, necessaria controparte dell’inquadratura, rappresenta il naturale milieu di una violenza mai mostrata in corso di svolgimento ma sempre (e solo) nei suoi effetti, il secondo ne è invece l’ovvia conseguenza. Laddove Haneke pone un limite all’immagine, la violenza deve essere soprattutto un suono: rigorosamente diegetico esso, in Funny Games, va dal rumore delle sevizie subite dagli Schöber fino all’onnipresente ronzio della televisione[7].

In conclusione, vale la pena di ricordare che quella in cui Haneke si colloca rappresenta soltanto una delle varie tendenze contemporanee della rappresentazione violenta, frutto dell’idea che una violenza visivamente castrata sia, come entrambi significante e significato, più efficace di una, viceversa, mostrativa. Proprio in questo senso va inteso allora il commento di Marineo, secondo cui il cinema di Haneke, «[…] continua a essere violento perché, mostrando l’assoluta anti spettacolarità della violenza, riflette sulla violenza senza psicologismi o, peggio, senza la ricerca di cause o spiegazioni». Una tendenza, questa, con cui non tutti i registi si trovano oggi artisticamente concordi.
Penelope Beltrami
Note
[1] Nel 2007, Michael Haneke realizzerà un remake americano shot-for-shot del primo Funny Games per ragioni di carattere commerciale e distributivo. Nell’analisi che segue, tuttavia, si è scelto di riferirsi alla sola versione originale del ’97.
[2] Si pensi all’onnipresente spettro della Seconda Guerra Mondiale, così come rappresentato ne Il nastro bianco del 2009, ma anche ai sopra citati risultati elettorali di fine anni Ottanta.
[3] Da un dialogo di Funny Games (1997): Anna « Come in, please. … So, how did you get in? » / Peter « At the front; I mean, by the beach … There’s a hole in the fence …».
[4] Lorenzo Rossi, Michael Haneke: lo spazio bianco. Cinema, storia e immagini del presente, Mimesis Edizioni, Milano, 2022, p. 26.
[5] Franco Marineo, Il cinema del terzo millennio. Immaginari, nuove tecnologie, narrazioni, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014, pp. 139-140.
[6] Con interpellazione s’intende il ‘guardare in macchina’. Si tratta di una pratica normalmente vietata dalle regole ‘grammaticali’ del cinema in quanto incompatibile con quell’illusione di realtà che il cinema stesso aspira a ricreare.
[7] Rossi, Michael Haneke: lo spazio bianco, cit., pp. 33-34.