Milano FF 2012

Milano Film Festival 2012: sguardi incrociati 5

Ultimi fuochi al MFF

Ancora concorso lungometraggi. E questa volta troviamo Héléna Klotz con L’âge  atomique, film francese del 2011 che approda in Italia al MFF. Un film che si svolge tutto in una notte, una notte triste, violenta, drammatica, di due adolescenti parigini disadattati, disperati, soli. Alcool, droga, una discoteca, il fallito tentativo di abbordare una ragazza, una rissa, un vagare senza meta per le strade della città, il cammino verso casa in un bosco deserto, le confidenze più intime tra due amici: se il film voleva indagare le difficoltà e i turbamenti adolescenziali di due tipici ragazzini dei nostri giorni, l’ha fatto ricorrendo a tutti gli altrettanto tipici stereotipi del caso. E alla fine, anche i due personaggi ne escono fortemente stereotipati: il protagonista è l’adolescente alternativo da manuale, incazzato col mondo, che soffre profondamente ma non incontra che incomprensione, che si sente vittima di un mondo che lo mette a margine, che stenta a definire i confini dei propri sentimenti e della propria sessualità. Un film scontato, un po’ furbo, ma soprattutto molto modaiolo, di un alternativismo impostato che un po’ innervosisce e un po’ annoia. Quando l’esistenzialismo diventa ricetta e fa tendenza, questi sono i risultati.

dal MFF, Monica Cristini

Quando a poco più di metà di un film gli spettatori cominciano ad alzarsi e ad andarsene, non è certo un buon segno; quando poi la maggior parte dei rimasti, tra sospiri d’impazienza, continua a gettare uno sguardo speranzoso all’orologio, ci si comincia a chiedere perché ci si trovi in quella sala. Ma soprattutto ci si domanda: perché anche Le sommeil d’or nella sezione lungometraggi del Milano Film Festival 2012? Per quanto ci si sforzi, durante e dopo la proiezione del lungometraggio d’esordio del regista franco-cambogiano Davy Chou, una risposta non arriva. Il cinema cambogiano ha saputo produrre dal 1960 e al 1975 più di 400 pellicole di cui quasi nulla, a causa della “purificazione culturale” voluta dai Khmer rossi, è sopravvissuto; questo documentario vuole rievocare il fascino originario di quei film, la passione per il cinema di una generazione che vide i propri sogni infrangersi in un genocidio che provocò la morte di un milione e mezzo di persone, il destino drammatico dei grandi cineasti cambogiani di quegli anni. Tema senza dubbio originale con cui però la prima fatica del giovane Davy Chou non riesce mai, e proprio mai, ad appassionare lo spettatore. La presunta magia di quelle pellicole rimane sempre sullo sfondo, le testimonianze riportate risultano addirittura quasi superflue: di quel cinema, così lontano dall’immaginario comune occidentale, continuiamo a non capire nulla. Solo nell’ultima mezzora, quando trapela qualcosa della repressione attuata dal regime di Pol Pot, si avverte il dovere morale di portare rispetto per il vissuto tragico di chi ha vissuto quegli anni e, proprio per questo, si segue allora anche con minor noia il documentario. Ma di quel vissuto e del dramma di quegli anni, per la verità ancora poco raccontato, emerge poco o nulla: anche l’identità del popolo cambogiano, la sua storia, la sua cultura e il legame epico che essa sembra aver intrattenuto con il proprio cinema prima del 1975, rimangono sempre sullo sfondo. Il buon proposito di ricostruire l’identità di un popolo attraverso il significato che il cinema seppe avere per alcune sue generazioni, si rivela così soltanto un tentativo poco riuscito, quello di raccontare un Paese poco raccontato come la Cambogia. Fortunatamente, il Milano Film Festival è stato anche altro.

dal MFF, Luca Scarafile

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