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Berlinale 70: immagini e suggestioni – Parte 2

Esperienza Forum con "Frem" e "Anne at 13,000 ft"

GIORNO 3

La giornata di oggi ha due certezze dal nome Frem e Anne at 13,000 ft. Questi sono i due film appartenenti alla categoria Forum che andrò a vedere oggi. Qui trovano spazio tutte le opere caratterizzate dall’esplorazione del linguaggio e da una riflessione sui limiti/potenziale del medium cinematografico.
Scelgo di raggiungere la location del primo film a piedi per aver modo di esplorare la zona e curiosare tra i distretti variegati della città. Mi dirigo quindi verso ovest, precisamente a Charlottenburg nei pressi del famoso Zoo di Berlino. Mi ci vorrà circa un’ora per arrivare a destinazione ma passeggiare per Berlino, oltre a darti un senso di tranquillità, ti riempie il cuore di buone sensazioni. Qui ogni strada è dotata di tre corsie: quella per le macchine, quella per i pedoni e quella per le bici. In questo modo ognuno ha il suo spazio e si può andare da una parte all’altra della città in completa tranquillità. Non c’è quindi da stupirsi se, nonostante il vento gelido, tanti sono i Berlinesi che si concedono una corsetta per le strade della città o le famiglie che si spostano in bici per portare i bambini a scuola o al parco (incluse carrozzine speciali per i più piccoli). Arrivato nelle vicinanze dello zoo, noto con mio grande stupore che nell’arco di nemmeno un chilometro si trovano uno dopo l’altro tre grandi cinema: lo Zoo Palast, il Delphi LUX e il Delphi Filmpalast. Quest’ultimo è la mia destinazione finale: il Delphi Filmpalast è un vero e proprio luogo di culto per i cinefili di Berlino, con i suoi quasi 700 posti è i suoi interni glamour è tra i più grandi monosala della Germania. L’ingresso è simile a un tempio, con due leoni in pietra e delle colonne decorative in stile dorico. In lontananza scorgo la facciata su cui domina la scritta “Delphi Filmpalast am zoo”. Finalmente sono arrivato! Se l’ingresso ha immediatamente colpito il mio sguardo, la sala è un incanto completo. Interamente rivestita di rosso, è illuminata da un’enorme lampadario rotondo (simile a un lucernario) e centinaia di lampadine a vista poste sui lati. Lo schermo è immenso e le centinaia di sedute blu intenso presentano l’iconica scritta “Delphi”. Mi accomodo in posizione centrale, le luci si spengono e sprofondo nella mia poltrona. Il film ha inizio.  Come prevedibile dalla categoria di appartenenza, Frem di discosta da qualsiasi parametro tradizionale: riprese analogiche sono mescolate al digitale e una sorta di intelligenza artificiale fluttua in raccolta di dati sulle lande ghiacciate dell’Antartico. Questa sorta di sonda aliena invisibile, interpretata da un drone, sembra possedere una coscienza e in modo meccanico si sposta rapidamente da una parte all’altra, fermandosi solo quando attratta da bizzarre forme di vita: un uomo che vive in un container e si immerge nelle acque ghiacciate, delle foche che prendono il sole o dei pinguini che si muovono in gruppo in cerca di cibo. La ripresa aerea e ampia e oggettiva, tutto sembra essere a fuoco ma delle interferenze disturbano e distorcono l’immagine rivelandone l’essenza: il pixel. Il suono di sottofondo è anch’esso distorto, elettronico: i rumori della natura primordiale e il crack dei ghiacciai in scioglimento si mescolano con un respiro affannato. Come tappeto sonoro un rumore bianco interminabile che subisce l’incursione di lontanissimi segnali radio che testimoniano la presenza di una civiltà da qualche parte sul pianeta. Frem è uno strabiliante incontro tra arte e scienza, realtà e fiction, presente e futuro. Un’esperienza sinestetica, unica e totalizzante, simbolo di un cinema di avanguardia e ricerca. Al termine della proiezione, il pubblico ha modo di porre qualche domanda all’autrice Viera Čákanyová. Ci racconta che le riprese del film sono durate 6 settimane in Antartide, durante il quale la troupe ristretta di tre persone viveva in assenza di riscaldamento e corrente elettrica all’interno del container d’acciaio mostrato nel film. Una situazione estrema, del tutto necessaria per arrivare ai risultati desiderati. Dopo aver risposto alle tante curiosità in sala, Viera si concede un ironico ringraziamento per i coraggiosi che sono sopravvissuti fino al termine della proiezione.

Affamato mi dirigo verso il grosso parco di Großer Tiergarten, dove divoro la mia schiscetta firmata Lidl.
Prima della visione di Anne, faccio però una tappa, quasi d’obbligo per me laureato in Design, all’Archivio del Bauhaus, rinomata scuola di design tedesca fondata dall’architetto Walter Gropius e attiva tra il 1919 e 1933.
Conclusa la visita al centro, mi sposto verso la periferia nord ovest della città dove ha sede il City Kino Wedding. Lo scenario cambia un’altra volta e mi ritrovo in una sala popolare, come quelle di oratorio che si possono trovare in Italia, dove le persone mangiano allegramente torta al cioccolato e sorseggiano “Berliner”. L’atmosfera è rilassata e la gente chiacchiera allegramente in sala in attesa dell’inizio del film. Sul palco sale una delle tante presentatrici disposte dal festival per l’introduzione dei film. Dal fare coinvolgente e il tono disinvolto ringrazia il pubblico e il cinema ospitante, ricordandone l’importanza a livello locale come polo culturale per questa parte della città. Ci ricorda anche che il cinema rende curiosi ed è capace di donare emozioni intense a chi lo frequenta assiduamente. In chiusura di questo preambolo invita sul palco il cast tecnico del film. La troupe è composta da soli tre ragazzi: Kazik Radwanski, regista e sceneggiatore, Nikolay Michaylov, direttore della fotografia, e il produttore Dan Montgomery. L’autore racconta che la scelta di una troupe così minimale è funzionale alla modalità di realizzazione del film: le riprese si sono svolte nell’arco di due anni, programmando un giorno di shooting a settimana. Ciò ha permesso di sviluppare un approccio intimo con la protagonista del film, la meravigliosa Deragh Campbell, conferendo un altissimo grado di realismo al film. La storia segue infatti le vicende quotidiane di Anne, insegnante al daycare centre di Toronto, dove si prende cura di una classe di bambini.  La telecamera la segue incessantemente catturando ogni suo stato d’essere alternando momenti intimi, situazioni imbarazzanti e attimi di totale smarrimento. In appena settanta minuti di film si assiste a mille volti della stessa persona, passando per gioia, tristezza, ansia, disperazione, spensieratezza, ecc… Una visione straniante che rispecchia però la complessità dell’essere umano e l’alternarsi frenetico di stati d’animo totalmente diversi tra loro passando da una situazione all’altra. Una verità spaziante con cui lo spettatore è costretto a fare i conti, una schizofrenia che è parte di tutti noi.
Sono quasi le venti, tento l’impossibile. Ancora una volta provo a sfidare la sorte e prendo la metro con destinazione Friedrichstadt-Palast. Sull’onda dell’entusiasmo globale per Parasite di Bong Joon-ho, mi metto in coda davanti alla biglietteria dell’imponente e abbagliante palazzo del cinema per il film coreano  Sa-nyang-eui-si-gan di Yoon Sung-hyun. Purtroppo l’afflusso di persone è tanto e arrivato a pochi metri dalla biglietteria fa capolinea il cartello “SOLDOUT”. Rammaricato, mi ritiro in ostello trovando conforto nel letto caldo.

Da Berlino, Samuele P. Perrotta
Foto di Samuele P. Perrotta e Costanza Gorick

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