Berlinale 2021FestivalSlideshow

Bilancio di una Berlinale a episodi

Va in archivio con il terzo Orso d’oro alla Romania negli ultimi dieci anni (dopo Il caso Kerenes di Peter Calin Netzer nel 2013 e Ognuno ha diritto ad amare di Adina Pintilie nel 2018), un exploit riuscito soltanto all’Iran in questo millennio, il 71° Festival di Berlino. Un’edizione in versione inedita e, si spera, unica, divisa in due segmenti a causa della pandemia: una tutta online per stampa e addetti ai lavori e una, a giugno in sala per il pubblico.
La formula, per quanto impegnativa da seguire e lontana per tutti gli aspetti da un’esperienza festivaliera, ha funzionato, con meno film del consueto e un buon livello medio, una delle migliori Berlinale degli ultimi anni. In parallelo si è svolto anche l’European Film Market con proiezioni e incontri destinati agli operatori di mercato, uno dei più importanti appuntamenti mondiali. Più che mai si aprono ora gli interrogativi sui film presentati, se aspettare la riapertura delle sale o puntare alle piattaforme streaming: ancora non sono usciti parecchi dei film che debuttarono a Berlino un anno fa.

What Do We See When We Look at the Sky?

I segni della pandemia si notavano esplicitamente solo nel film Orso d’oro, Bad Luck Banging or Loony Porn di Radu Jude, ma un elemento ricorrente nelle pellicole era la suddivisione in capitoli o in episodi, in maniera molto più frequente e significativa rispetto al solito.
Tra i film migliori della Competizione, rimasto fuori dai riconoscimenti ufficiali ma insignito del premio Fipresci della stampa internazionale, c’è il georgiano What Do We See When We Look at the Sky? di Alexandre Koberidze (già autore di Let The Summer Never Come Again del 2017). La studentessa di medicina Lisa e il calciatore Giorgi si conoscono per caso (molto bella la scena dell’incontro fortuito davanti a una scuola che li lascia quasi completamente fuori campo) e si danno appuntamento per il sabato seguente al bar vicino al ponte. Un maleficio è in agguato e trasforma entrambi, rendendoli irriconoscibili, oltre a perdere il loro migliore talento. Entrambi si presentano all’orario convenuto, ma non si riconoscono. Finiranno a lavorare in due locali vicini mentre sono in corso i Mondiali di calcio. Intanto l’assistente di due registi gira per le strade alla ricerca di coppie adatte a un film in preparazione. È come se il cinema di Eric Rohmer incontrasse quello Otar Ioseliani in una cittadina, raccontando l’amore impossibile, il destino, il caso, con un’atmosfera sospesa e leggera, un senso di magico (e la magia del cinema pronta ad agire) e, per una volta, di pluralità: i protagonisti non sono soli, vivono circondati da storie e da ragazzi e ragazze che giocano a pallone per puro divertimento.

Presentato negli ultimi giorni e vincitore dell’Orso d’argento – Gran premio della giuria è il giapponese Wheel of Fortune and Fantasy di Ryusuke Hamaguchi, già premiato a Locarno 2015 per Happy Hour. Un film in tre episodi sull’amore, le relazioni, il caso e le coincidenze, profondo e leggero allo stesso tempo. Lunghi dialoghi a due, acuti e ironici, su ciò che resta degli amori, la sofferenza per amore e il desiderio. Spicca il terzo, che si svolge dopo che un virus ha colpito i computer e fatto saltare tutte le comunicazioni, così che si è tornati a usare la posta normale, i telefoni fissi e i telegrammi. Un mondo dove ritrovare le persone è più difficile; così una donna torna da Tokyo a Sendai per partecipare a un ritrovo della vecchia classe, sperando di incontrare una compagna. Non vedendola, se ne va delusa, ma sulle scale mobili della stazione ferroviaria le pare di riconoscerla. Hamaguchi sta con delicatezza tra i ricordi di un primo amore e le insoddisfazioni dell’età di mezzo, in un ribaltamento di situazioni, sorprese e dettagli.

Dramma di dilemmi morali è l’iraniano Ghasideyeh gave sefid – Ballad of a White Cow di Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam, che è anche la protagonista, nei panni di Mina, operaia in una fabbrica che lavora latte. Suo marito Babak è giustiziato in carcere a inizio film e, dopo un anno, la donna apprende che era innocente e che era stato costretto a confessare, mentre ora si è presentato il vero assassino. Con Mina vive la piccola figlia Bita, che è sorda e ama andare al cinema (il suo nome deriva dal film omonimo di Hajir Dariush del 1972 con la star di prima della rivoluzione islamica Googoosh), cui non ha ancora avuto la forza di dire la verità sul padre. Mentre presenta appello contro l’indennizzo (“il prezzo del sangue”), con la quale vorrebbero liquidare la moglie e la famiglia di lui, si presenta in casa Reza. Questi si dichiara amico di Babak, ma in realtà è il giudice che l’aveva condannato e vuole farsi perdonare. L’uomo si inserisce come un intruso nella vita della protagonista e le sue azioni finiscono con l’essere controproducenti. Il film pone domande scottanti per l’Iran di oggi, come cos’è la giustizia o se ha senso la condanna a morte, in cui, oltre a togliere la vita, non si può riparare a un eventuale errore giudiziario. Sanaeeha e Moghaddam denunciano senza spingere troppo, non vogliono fare solo una pellicola di denuncia, ma porre dilemmi morali e pure raccontare la determinazione e la dignità di una donna (sola anche contro la famiglia del marito) nel lottare per farsi riconoscere i propri diritti e crescere la piccola Bita.

In Panorama, dopo essere stato in prima mondiale al Sundance Festival, c’era Der menschliche Faktor – Human Factors, coproduzione Germania-Belgio del bolzanino Ronny Trocker, già noto per Gli eremiti passato alla Mostra di Venezia nel 2016. Jan (Mark Waschke) e Nina (Sabine Timoteo) sono marito e moglie e anche soci di un’importante agenzia di comunicazione. Quando il primo accetta l’incarico per una campagna politica (per le elezioni Europee) senza consultarsi con la moglie, la famiglia va in crisi, con una serie di episodi strani e un solco che si apre sempre più tra i due. Trocker racconta abilmente con alcuni flash-back che entrano e si raccordano in maniera sorprendente, creando una tensione palpabile fin dall’inizio. La sequenza d’apertura è con un lento movimento della macchina da presa dentro la casa di vacanza in Belgio nella quale stanno per entrare i due accompagnati dai figli, l’adolescente Emma e il piccolo Max. Li attende il primo fatto sospetto, l’apparente incursione di un gruppo di giovanissimi che Nina avrebbe sorpreso tra le mura mentre Jan è al supermercato. Scopriamo di essere già nel pieno della storia e che nella coppia si sta già consumando la rottura, intanto Emma ha voglia di uscire e divertirsi e Max va in crisi perché il suo topo Zorro approfitta della confusione per scappare. Un film disseminato di elementi che spiazzano, con un ottimo utilizzo degli ambienti (esplorati dalla videocamera prima ancora che dai protagonisti) e del rapporto dei personaggi con gli spazi. Ne esce un dramma familiare sottile e insinuante fino al finale, capace di far implodere il quartetto senza grandi litigi ma agendo come l’acqua che entra nelle spaccature delle rocce e, ghiacciando, le dilata fino al distacco.

Nicola Falcinella

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