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Cannes 75: da Elvis a Bowie

Due miti della musica sullo schermo del 75° Festival di Cannes, entrambi fuori concorso. Elvis di Baz Luhrmann, uno dei film più attesi dell’edizione e nelle sale italiane dal 22 giugno, rilancia il talento visivo del regista australiano, che ha un senso dello spettacolo, basti ricordare Ballroom – Gara di ballo, Romeo + Giulietta o Moulin Rouge, come pochi ai nostri giorni nonostante i meno esaltanti Australia e Il grande Gatsby (che inaugurò Cannes nel 2013). Una biografia di Elvis Presley visto dal suo manager, il colonnello Tom Parker, interpretato da un magnifico Tom Hanks, sornione e infido. Sebbene Parker fosse stato fondamentale nel lanciare e consacrare il mito della musica americana, i due ebbero un rapporto complicato: non a caso all’inizio il manager sogna di aver ucciso Elvis e in questo modo segna il film con l’ombra della fine. L’australiano Luhrmann sta lontano da ogni ipotesi complottista e ricostruisce la rapida ascesa, i guai e la fama di Presley. Parker intuì subito il talento unico di quel ragazzo, con la “voce da nero”, influenzata dalla musica che da ragazzino ascoltava di nascosto. E quando lo vide esibirsi, rompere il ghiaccio muovendo il bacino e facendo impazzire il pubblico, soprattutto femminile, ne guidò la carriera, anche approfittandosi dell’artista. I movimenti selvaggi del corpo, definiti “osceni”, furono alla base di vari problemi per il cantante (e qui sembra di rivedere il recentissimo Gli Stati Uniti contro Billie Holiday), che poi, durante il servizio militare in Germania, trovò l’amore in Priscilla dalla quale ebbe la figlia Lisa Marie. Elvis è un film incalzante, soprattutto nella prima parte, con abbondante uso di split-screen, ma meno rutilante e barocco di altri lavori di Luhrmann, con una bellissima prova di Austin Butler nel non facile ruolo del cantante, da diventare quasi mimetico. Il regista riesce a conciliare il racconto dei personaggi, del mito e del contesto storico (precisato, tra l’altro, dagli assassini dei Kennedy, di Martin Luther King e di Sharon Tate).

Proiezione di mezzanotte per Moonage Daydream di Brett Morgen, bel documentario su David Bowie che non vuole fare rivelazioni o svelare misteri, bensì rendere la “frammentazione” di cui parlò lo stesso musicista e restituire l’unità di uno dei grandi protagonisti dello spettacolo dell’ultimo mezzo secolo. Dai dischi che gli passò il fratellastro, insieme a Sulla strada di Jack Kerouac (libro che lo segnò), fino alla fine della carriera. Il film è un flusso di musica e immagini, tra pellicole di fantascienza, spezzoni di concerti, fotografie, quadri (da Picasso a Pollock). Il filo è costituito dalle parole dello stesso Bowie, attraverso i frammenti di interviste che restituiscono un’artista che non si è mai accontentato e “non si è mai fermato un giorno”, se non quando rinviò il tour per il matrimonio con Imam. Un documentario ricchissimo, di quasi due ore e mezzo, con tante canzoni ma senza didascalismi o facilonerie. Moonage Daydream è un film davvero all’altezza di Bowie.

Nicola Falcinella

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