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Riflessioni sul 40° Torino Film Festival

Un festival che è tornato ad affidarsi a Steve Della Casa, che diresse le edizioni a cavallo dei due secoli e che restano tra le più memorabili, per ritrovare un’identità che si stava sbiadendo. Il Torino Film Festival ha celebrato nei giorni scorsi il suo 40° con un ritorno almeno in parte del suo pubblico e un’edizione articolata come prima della pandemia, anche se l’addio alle retrospettive integrali (una questione che riguarda purtroppo diverse manifestazioni) continua a pesare e rappresenta una perdita importante.
Come sempre più spesso accade, i festival italiani danno uno spazio crescente alla produzione nazionale, anche quando è di livello modesto, soprattutto nel campo della finzione, mentre nel documentario il panorama è meno sconsolante. Tra i migliori La giunta di Alessandro Scippa, sull’esperienza del sindaco comunista Maurizio Valenzi a Napoli tra il 1975 e il 1983, con le speranze di cambiamento che portava con sé rievocate e ripensate da una prospettiva personale: il regista è figlio di uno degli assessori più in vista di quella giunta. Quasi un laboratorio politico, con il sogno di cambiare la città a favore delle classi popolari, reso con un racconto collettivo e intimo e con un montaggio emozionale (di Mauro Santini, regista a sua volta) che utilizza parecchie immagini di repertorio.
Il meglio del festival era costituito, come quasi sempre avviene, da film già passati in altre rassegne europee (e presentati a Torino in prima italiana), segnatamente Berlino, Cannes e Locarno e se n’è già parlato in quelle occasioni. Tra queste da ricordare Skazka – Fairytale di Aleksandr Sokurov (sarà in sala dal 22 dicembre), EO di Jerzy Skolimowki o Fumer fait tosser di Quentin Dupieux.

Palm Trees And Power Lines di Jamie Dack

In concorso 12 film, opere prime e seconde, senza cadute ma pure senza grandi scoperte, con un verdetto della giuria abbastanza equilibrato.
Il meno condivisibile è forse il premio per il miglior film (e per la sceneggiatura) assegnato all’americano Palm Trees And Power Lines di Jamie Dack, già premiato al Sundance e si capisce subito il perché. È la storia di Lea, 17 anni, una madre single (Gretchen Mol) che è presa da altro, coetanei che pensano solo al sesso e si comportano in modo respingente, una sola amica che si rifugia nel telefono. Una notte conosce Tom, che ha il doppio dei suoi anni, la accompagna a casa e sembra gentile. Tra i due c’è una tensione, fisica ma non solo, che sembra sempre sul punto di esplodere. Da una frequentazione, iniziano una relazione sballata ma che sembra accettabile nella desolazione generale, che prende un piega intuibile ma non del tutto. È un po’ la solita storia di adolescenti abbandonati a loro stessi da adulti assenti, in confezione da film indipendente, non male ma troppo dentro certe coordinate per convincere del tutto. Fa un po’ pensare al Red Rocket di Sean Baker, anche se là c’era più cinema, più inventiva e i personaggi erano in fondo più simpatici.
Il premio speciale della giuria è andato al francese Rodeo di Lola Quivoron, forse il migliore del lotto, che sarà distribuito in Italia da IWonder. All’irruente Julia hanno rubato la moto, ma spingendo, correndo, convincendo un meccanico e abusando della sua fiducia, si procura una nuova moto da corsa. Entra in un gruppo di motociclisti che fanno corse clandestine, naturalmente tutti maschi, li sfida, si ritrova nei guai e si deve rifare, senza dimenticare un bel momento di solidarietà con la moglie e la figlia del boss costrette in casa da quest’ultimo. Un film di musica, motori e adrenalina, con una ragazza grintosa e ribelle interpretata dalla travolgente ed elettrica Julie Ledru (meritatissimo premio di miglior attrice) che da sola basterebbe a tener viva l’attenzione. Con un piccolo azzardo si potrebbe accostare Rodeo a Atlantide di Yuri Ancarani, con meno stile e più energia. Quivoron sembra più interessata all’impatto delle singole scene che alla narrazione complessiva ma riesce a essere efficace.

War Pony di Riley Keough e Gina Gammell

Migliori attori sono stati proclamati Jojo Bapteise Whiting e Ladainian Crazy Thunder per War Pony di Riley Keough e Gina Gammell, già Caméra d’or al Festival di Cannes, che ha pure preso il premio della Scuola Holden: anche questo un film statunitense fin troppo indie, che ha tematiche e difetti simili al vincitore, aggiungendoci il pauperismo fin troppo calibrato. Siamo in una comunità di nativi americani e le vicende del ventenne Bill che crede di arricchirsi vendendo cuccioli di cane e del dodicenne intraprendente Matho viaggiano in parallelo ma finiranno per incontrarsi. C’è qualche buon momento, ma nel minimalismo eccessivo sembra troppo già visto, comprese le apparizioni del bisonte.
Fuori dai premi, ma a sua volta intriso di pauperismo è La hija de todas las rabias – Daughter of Rage di Laura Baumeister, ambientato in Nicaragua. La piccola Maria vive ai margini di una discarica con la madre Lilibeth che traffica cuccioli di cane (ancora!) e un giorno scompare nel nulla. L’ambientazione è fin troppo simbolica, la bambina è molto convincente, ma il film gira spesso a vuoto.
Menzione speciale al non privo di fascino Nagisa di Takeshi Kogahara, una storia di fantasmi dopo la scomparsa di una sorella in un incidente.
Tra i film più interessanti il canadese Falcon Lake di Charlotte Le Bon, storia di formazione e di iniziazione sentimentale durante una vacanza al lago. Protagonisti il quattordicenne Bastien, che ha paura dell’acqua, e la sedicenne Chloe, figlia di amici di famiglia che gioca con la diceria di un fantasma del lago. La regista giostra pochi elementi in maniera saggia, con inquadrature precise e un uso del fuori campo molto interessanti, ci sono bei momenti e una svolta che ribalta anche lo spettatore.

La vera scoperta, almeno per il pubblico italiano, è stata nell’omaggio allo spagnolo Carlos Vermut, noto proprio al pubblico torinese per aver sceneggiato l’interessante horror psicologico La abuela (diretto da Placo Plaza) presentato al Festival un anno fa nella sezione Le stanze di Rol curata da Pier Maria Bocchi. Torino ha proiettato i quattro lungometraggi e i corti del cineasta che ha iniziato come fumettista, dall’esordio con Diamond Flash (2011) a Magical Girl (Concha de oro a San Sebastian del 2014), Quien te cantarà (2018) fino al nuovo Manticore – Manticora.
Se già Magical Girl viaggiava sorprendentemente sul filo di una sottile inquietudine, l’ultimo è un piccolo gioiellino che resta dentro gli occhi e la testa dello spettatore. Julian è un trentenne che disegna e modella mostri per un’azienda di videogiochi. Un giorno interviene nell’appartamento dei vicini, dove è in corso un principio di incendio e il piccolo Cristian che suona il pianoforte è solo in casa. Il protagonista inizia ad avere crisi di panico e deve prendere ansiolitici. Un giorno in un locale conosce Diana, che assiste il padre malato, e i due iniziano una relazione che inizialmente sembra dare speranza e poi rivela aspetti indicibili della personalità. Un film che più che mostrare suggerisce, con uso sapiente delle ellissi (come già nel precedente), un po’ commedia assurda e, di più, thriller psicologico.

Tra i documentari più interessanti da ricordare Non ne parliamo più – L’inferno a cui siamo sopravvissuti di Vittorio Moroni (Tu devi essere il lupo, Le ferie di Licu) con la francese Cécile Khindria (già giornalista per France 24), che ha ricevuto il Premio speciale della giuria nel concorso Documentari italiani, mentre il primo premio è andato a Corpo dei giorni del collettivo Santabelva. L’opera di Moroni e Khindria porta alla luce la storia, poco nota in Italia e ancora molto divisiva in Francia, degli harki, i soldati algerini che combatterono per la Francia durante la guerra per l’indipendenza del loro Paese natale. Dopo il 1962 molti di loro furono costretti a lasciare le loro case, buona parte attraversò il Mediterraneo, ma non furono mai riconosciuti dai governi francesi. Molti furono trasferiti a Bias, nel dipartimento sud-occidentale di Lot e Garonna, e ospitati, o sarebbe meglio dire richiusi, in un campo dalle regole ferree, più simile a quelle di un centro di detenzione che di accoglienza. Vissero là confinati ai margini della società, dopo aver tagliato i ponti con la terra d’origine, ma conservandola anche nel linguaggio, e senza potersi integrare. Una situazione dolorosa di cui gli stessi protagonisti non hanno mai voluto parlare, nascondendo nei silenzi patimenti e vergogna, e cui i due registi riescono accedere a una giovane donna della nuova generazione che vuole sapere di più sul passato familiare. Si tratta di Sarah, 30 anni e un figlio piccolo, desiderosa di sapere di più del nonno harki.
Il film, molto intenso e riuscito, segue, mantenendo una discreta distanza, l’indagine di Sarah, rispettando i tempi suoi, dei familiari e degli interlocutori, fin dalla scena iniziale che la vede a colloquio con il padre Rabah che ha sempre difeso con silenzio quei trascorsi terribili. Il documentario mostra persone a metà tra due Paesi e culture, costretti a fare i conti con le radici o a compiere scelte delicate, e sui quali pesa la lunga negazione ufficiale (anche se Macron nel settembre 2021 ha chiesto loro scusa a nome del popolo francese). La profonda sofferenza è attenuata nel film dalla delicatezza dello sguardo e dal rispetto di distanze e tempi: se il documentario ha bisogno del suo crescendo e delle sue svolte, queste vanno sempre di pari passo con l’evoluzione dei protagonisti e con la loro disponibilità ad aprirsi. Il titolo, Non ne parliamo più, è il punto su cui convergono nipote e nonna prima di scoprire che è arrivato il tempo per riaprire e capire quel capitolo.

Nicola Falcinella

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