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Venezia 78: La Caja, il ritono di Vigas a Venezia

Il volto di Hatzin si staglia tra le distese aride del deserto messicano, sopra di lui solo l’azzurro intenso che segna il confine tra il crepuscolo e la notte. Poi la soggettiva del ragazzo sulla carcassa di un lupo, mentre la colonna sonora indugia sul brulichio degli insetti intenti a divorarla, in un crescendo assordante.

Lorenzo Vigas torna a Venezia dopo il grande debutto baciato dal Leone d’oro della 72 Mostra, per indagare il difficile rapporto tra la figura paterna e l’America latina, nel terzo atto della sua triologia sulla paternità dopo il corto Los elefantes nunca olvidan e Desde Allá (Ti guardo).
La produzione targata Teroema (società di Lorenzo Vigas, Michel Franco, Jorge Hernández Aldana), racconta la storia di Hatzin, un ragazzo di città del Messico in viaggio verso il nord del Paese, nel tentativo di recuperare la salma di suo padre, abbandonata una fossa comune. Ma l’incontro con Mario, un uomo dall’aspetto simile al padre, innesca dubbi e speranze nella vita di Hatzin.
Se il debutto alla finzione di Vigas era segnato dalla penna esperta di Guilliermo Arriaga (sceneggiatore di Amores Perros, 21 grammi e Babel), il secondo lungometraggio del regista venezuelano è invece scritto e diretto dal solo Vigas, che si mostra tuttavia molto coerente con il suo precedente lavoro, nella scrittura quanto nella regia. Il registro severo di Desde Allá sembra tornare a raggelare il pubblico, con uno stile controllatissimo che impedisce volutamente ogni facile partecipazione empatica.
I tempi dilatai delle inquadrature sono esaltati da una costruzione del quadro scrupolosa, che predilige i campi lunghi in profondità di campo nelle scene d’esterno sul deserto messicano. Le tonalità paglierine del deserto sono messe in rilievo da una fotografia che sceglie di ritrarlo quasi esclusivamente nell’ora blu (dopo il tramonto o subito prima dell’alba), esaltando il contrasto con l’azzurro del cielo.

Dietro lo stile asciutto del regista venezuelano, ci è sembrato di leggere una densa trama di relazioni cromatiche che percorre l’intero film, in una struttura parallela allo sviluppo narrativo del testo filmico. L’utilizzo del colore giallo ci sembra emblematico sotto questo aspetto, con il suo ritorno costante alle tinte ocra del deserto o ai vari oggetti di scena quali l’impermeabile di Mario e la giacca di Hatzin, così come gli interni della fabbrica e della casa di Mario. Insomma, ci sembra che ogni elemento riconducibile alla figura paterna di Mario sia contaminato da questo colore, in un fitto reticolo cromatico che sembra stringersi attorno ad Hatzin, troppo affamato d’amore per potersene accorgere. Ma sarà il bianco della neve, volutamente sovraesposto, a segnare la riscossa di Hatzin, nella disperata ricerca di superare il trauma, sostituitosi al dolore del lutto.
L’espressionismo cromatico del film sembra trovare eco nei rumori sordi e dei tonfi che lo attraversano nei calci di Hatzin, nel rombo della fabbrica e nei colpi di badili, in una composizione di rumori che supera il semplice realismo. La sequenza con cui abbiamo aperto la recensione è un buon esempio dell’utilizzo antinaturalisco del suono, nel crescente brulichio delle formiche.
Con un registro non dissimile da Michel Franco (in concorso con Sundown), Lorenzo Vigas presenta per la selezione ufficiale un ritratto impietoso dell’America Latina, in un film meno intimista dell’esordio e che si apre a un’analisi attenta della società messicana.

da Venezia, Isa Tonussi

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