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200 metri

Premiata a Venezia nel 2020, nella sezione collaterale Giornate degli Autori, 200 metri, opera prima del regista palestinese Ameen Nayfeh, ripropone la frattura sempre più profonda che da vent’anni offende due popoli e che ha l’aspetto del vergognoso muro nel cuore della Cisgiordania lungo più di 700 km e costato, fino ad ora, quasi 3 milioni di dollari a chilometro. Un’opera con cui il parlamento israeliano avrebbe dovuto proteggere il paese dagli attacchi terroristici di Hamas ma che – come ha scritto la giornalista libanese Stéphanie Khouri – ha rafforzato le posizioni degli occupanti, esasperato il popolo palestinese e per nulla arginato le infiltrazioni nemiche, come dimostrano i recenti attentati.
Il muro che torna nel cinema contemporaneo per raccontare, dal secondo dopo guerra ad oggi, il fallimento di modelli economici e ideologici che hanno seminato povertà e discriminazioni, nelle sue diverse declinazioni e collocazioni geografiche, sembra sullo schermo voler negare i presupposti dello sguardo cinematografico che, nonostante la cornice, nasce per aprire gli spazi. Ripenso a un film ucraino del 2019, Atlantis, quando sul finire mostra la messa a terra di blocchi bianchi di cemento che divideranno il Donbass e che, occupando l’inquadratura, occultano la profondità di campo, negano l’asse z che da sempre è la direttrice lungo la quale il nostro occhio di spettatore gode di un viaggio nel corpo stesso delle immagini. Berlino, il confine messicano settentrionale, Gaza, il Berm marocchino, Cipro: il muro è la creatura mostruosa di questi decenni, un significante del nostro immaginario che porta con sé il senso di irreversibile sconfitta delle moderne società globalizzate e impaurite dallo spettro del vicino invasore. E questo senso di sconfitta permea tutti i racconti cinematografici tagliati dai muri, anche una commedia recente come Tutti pazzi a Tel Aviv, dove pure il muro si sdoppia in un ridicolo posto di blocco.

In 200 metri il muro taglia letteralmente una famiglia, su questo si sviluppa l’idea di Ameen Nayfeh, che inscena l’ennesima metafora della condizione palestinese.
I coniugi palestinesi Mustafa (Ali Suliman) e Salwa (Anna Unterberger) vivono in due appartamenti distanti duecento metri e divisi proprio dal muro. Mustafa, orgogliosamente legato alla sua terra, non ha mai accettato il visto di lavoro che renderebbe semplice raggiungere la famiglia, poiché lo reputa un compromesso umiliante. Per questo rimane con la madre in Giordania, mentre Salwa e i tre figli, appena possono, li raggiungono di giorno per poi tornare all’imbrunire nella zona presidiata dall’esercito israeliano, aspettando che Mustafa dia loro la buona notte accendendo una luce dal suo balcone. Quando uno dei figli è vittima di un incidente e l’uomo si precipita al checkpoint per recarsi all’ospedale, per un cavillo gli viene negato l’accesso. Decide così di pagare un contrabbandiere per oltrepassare il muro: inizia un viaggio che si trasforma in una pericolosa odissea in compagnia di altri malcapitati che vorrebbero attraversare la barriera clandestinamente, tra i quali spiccano un adolescente, in cerca di occupazione, e una documentarista olandese accompagnata da un interprete i cui scopi non sono chiarissimi.

Il film si tiene a distanza dai comizi politici, al regista basta mettere in scena centinaia di lavoratori a chiamata che all’alba premono per passare dall’altra parte del filo spinato con permessi a tempo, spesso contestati da chi deve apporre un timbro; l’ansia che assale sempre e comunque chi deve affrontare un check point; infine la catena di contrabbandieri che “sdoganano” clandestinamente esseri umani, simili per certi aspetti agli scafisti. Anzi, quando il film innesca la marcia alta e dopo il primo terzo si traveste da road movie per trovare una fessura nel cemento che possa permettere a Mustafa di raggiungere il figlio in ospedale, i contrabbandieri e i compagni di viaggio, diventano attori di un contesto complicato, irrisolto, inaridito da decenni di esasperante conflitto e da lancinante dolore, dove ogni futuro deve fare i conti con quell’anomalia della ragione umana che prende la forma feroce di un muro e diventa incubo.
Il ragazzino appena dodicenne è forse la figura meno interessante in questo quadro, perché con le sue sacrosante urgenze porta in dote sin troppe figure di minori vittime della miseria già molto viste al cinema, un personaggio funzionale in chiave empatica ma che poco sorprende. Mentre al contrario la documentarista europea arrembante, con la sua macchina da presa indagatrice, ha l’ambiguità dello sguardo esterno e ipocrita, almeno fino al crollo psicologico che le farà calare la maschera, rivelando, in un colpo di scena che tacerò per rispetto a chi il film non lo ha visto, quanto la macerie della Storia (israelo-palestinese) rischino di seppellire qualsiasi ipotesi di pacificazione invocate a più riprese da chi abita aldiquà e aldilà del muro.

Alessandro Leone

200 metri

Regia e sceneggiatura: Ameen Nayfeh. Fotografia: Elin Kirschfink. Montaggio: Kamal El Mallakh. Musica: Faraj Suleiman. Interpreti: Ali Suliman, Anna Unterberger, Motaz Malhees, Mahmoud Abu Eita, Lana Zreik. Origine: Palestina/Giordania/Italia/Qatar/Svezia, 2022. Durata: 96’.

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