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Il palmares della Berlinale 74: Orso d’Oro a Mati Diop

L’Orso d’oro per la prima volta a un film africano e nessuno premio all’Italia. Il 74° Film Festival di Berlino si è concluso assegnando il premio maggiore al documentario Diahomey della franco-senegalese Mati Diop, un film di cui si era parlato parecchio, ma era non tra i più pronosticati. Una produzione a maggioranza francese (che si ripete dopo Sur l’adamant di Nicolas Philibert un anno fa, non a caso un altro documentario), insieme a Benin e Senegal, e che segna una tappa storica. Il racconto di Diop parte dal 2021, quando il governo francese restituì al Benin 26 pezzi d’arte realizzati durante il regno di Diahomey e trasportati a Parigi a fine ‘800. In poco più di un’ora, la regista interseca tanti piani, la cronaca del trasporto e l’allestimento del nuovo museo, la riflessione su colonialismo e post colonialismo rappresentata da un convegno universitario, l’inconscio e la memoria dell’Africa affidati alla voce della figura umana regale numerata con il 26. Il film è molto interessante, a tratti molto bello, ma un po’ troppo didascalico, volendo esplicitare tante cose: lascia però la sensazione, soprattutto nelle parti dei relatori, di restare un po’ in superficie. Diop, nipote del grande regista senegalese Djibril Diop Mambety, aveva già vinto il Gran Prix al Festival di Cannes nel 2019 con il suo potente esordio Atlantics – Atlantique. A posteriori la scelta non è una sorpresa da parte della giuria presieduta dall’attrice Lupita Nyong’o, premio Oscar per 12 anni schiavo. Una decisione che ci sta, con quel carattere politico (Africa, colonizzazione, regista donna, documentario) sempre caro alla Berlinale, anche se qualche film più riuscito c’era. Il palmares risulta in gran parte condivisibile, premiando quasi sempre il meglio di un concorso per una volta diviso nettamente in due, tra un gruppo di film buoni e molto buoni e una pattuglia di inutili e irritanti, con pochi titoli a metà del guado.

Fuori dai premi sia il curioso e affascinante film storico-musicale Gloria! di Margherita Vicario, che forse avrebbe meritato almeno una segnalazione, sia il fantascientifico sentimentale Another End di Piero Messina, uno dei pochi in competizione con un cast di grandi nomi (Gael García Bernal, Renate Reinsve e Bérénice Bejo), ma anche tra i più anonimi.
L’Italia deve consolarsi con Orso d’argento Premio della giuria a L’Empire del francese Bruno Dumont con Anamaria Vartolomei, Camille Cottin e Fabrice Luchini, coproduzione italiana girata anche alla Reggia di Caserta. Una folle commedia grottesca che prende in giro tutta la fantascienza, a partire da Star Wars, inscenando un’assurda lotta tra bene e male in un paesino di pescatori e insieme tornando a raccontare di giovani ai margini come in Fiandre.

A Traveler’s Needs di Hong Sangsoo

Secondo premio per importanza, l’Orso d’argento Gran premio della giuria, al coreano A Traveler’s Needs di Hong Sangsoo. Forse il più bel film della competizione, opera di un regista prolifico, minimalista e personale, che in carriera ha raccolto numerosi riconoscimenti senza ancora raggiungere la grande vittoria.
Orso d’argento come migliore regista al dominicano Nelson Carlos De Los Santos Arias per Pepe, la vera sorpresa del concorso, uno stranissimo ibrido tra il poliziesco, il film sociale e il documentario tra Namibia e Colombia, con la voce dell’ippopotamo filosofo e cocainomane Pepe. Un lavoro che ha in comune con il vincitore parecchie cose: la colonizzazione; la sottrazione di beni e ricchezze da altri Paesi; l futuro del sud del mondo; la voce di un non umano.

Il premio più discutibile è l’Orso d’argento per la miglior interpretazione da protagonista a Sebastian Stan (affermato per il suo ruolo di Bucky Barnes nei film Marvel) in A Different Man di Aaron Schimberg. Al di là dell’opera, un pasticcio inutile di strizzatine d’occhio prodotto da A24, Stan indossa per buona parte una maschera e quelli sono i momenti più riusciti. Per la miglior interpretazione da non protagonista, l’Orso d’argento è stato attribuito all’irlandese Emily Watson nel film d’apertura Small Things Like These di Tim Mielants.

Dying – Sterben

L’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura è andato al tedesco Matthias Glasner per Dying – Sterben, un dramma familiare con tanti pregi (la sincerità, l’alternanza di tragico e comico, l’elaborazione del lutto) che resta nel cuore e avrebbe meritato un premio, ma è anche un po’ squilibrato e forse non ha nella scrittura il suo pregio maggiore.
Ultimo premio ufficiale l’Orso d’argento per il miglior contributo tecnico al direttore della fotografia Martin Gschlacht per The Devil’s Bath – Des Teufels Bad degli austriaci Veronika Franz e Severin Fiala. Ambientato in Austria intorno al 1750 è un supplizio per la protagonista Agnes e per lo spettatore: un film prevedibile, con un passato di oscurantismo trattato con crudeltà gratuita, che neanche le immagini molto ricercate salvano.
È rimasto fuori dal palmares l’iraniano My Favourite Cake di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, che si era collocato in testa alle preferenze di molti festivalieri e ha ricevuto i premi della giuria Ecumenica e della stampa Fipresci. Una rarissima commedia sentimentale da Teheran con al centro un amore tra due settantenni che criticano apertamente il regime del loro Paese: come ritorsione ai registi è stato ritirato il passaporto e non hanno potuto essere presenti a Berlino.
Tra i tanti altri riconoscimenti nelle numerose sezioni della Berlinale, da menzionare il miglior film della sezione parallela Encounters Direct Action di Guillaume Cailleau e Ben Russell e la miglior opera prima Cu Li Never Cries del vietnamita Phạm Ngọc Lân.

da Berlino, Nicola Falcinella

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