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12 anni schiavo

12 anni locaSe disponessimo di un’ipotetica macchina del tempo, capace di trasportarci nella contea di Saratoga di metà ottocento, ci stupiremmo per l’incredibile modernità di una cultura americana, tutta settentrionale, europeista e con un occhio di riguardo ai diritti civili, che già all’epoca permetteva a bianchi e neri di condividere i medesimi spazi pubblici e sociali. Certo, con tutti i limiti e i crismi della situazione. Eppure imbattersi in un afroamericano che girovagava per strada, andava al lavoro ben vestito ed elegante, tornava da mogli e figli in un’ancora più elegante casa di campagna, non era cosa rara. Tutto questo perché l’America del diciannovesimo secolo aveva abolito l’importazione di schiavi nel 1808, permettendone la compravendita soltanto all’interno dei confini domestici, mentre gli stati del nord avevano abrogato direttamente lo schiavismo tra il 1774 e il 1804. A metà ottocento, cioè il momento storico in cui Steve McQueen ambienta il suo film, i negri d’America erano quattro milioni su una popolazione di trenta, quattrocentomila di loro erano liberi e la metà risiedeva nel New England, ai confini con il Canada. Sì, avete capito bene: c’erano dei neri liberi, che avevano addirittura il diritto di voto, e altri che, pur appartenendo alla medesima nazione, condividendone lingua e costumi, non lo erano.12 anni 1

McQueen traspone su grande schermo la vicenda biografica che Solomon Northup dette alle stampe nel 1853: quell’anno veniva pubblicato anche un altro testo fondamentale, Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane, dell’aristocratico francese Joseph-Arthur de Gobineau; l’anno precedente era stata la volta de La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher, mentre quello successivo vedeva l’approvazione del famigerato Kansas-Nebraska Act, che cassava il divieto di introdurre la schiavitù negli stati di nuova acquisizione, lasciando ai relativi abitanti la decisione “democratica” se ripristinarla o meno. L’adattamento delle memorie di Salomon, talentuoso violinista nero che, nato libero, è derubato dei documenti e venduto come schiavo da due furfanti, non poteva contare su un’interpretazione migliore di quella affidata al britannico Chiwetel Ejiofor (impronunciabile, misconosciuto, onnipresente sul set dei film più danarosi, da 2012 di Roland Emnmerich a Salt di Phillip Noyce con Angelina Jolie). È sul suo corpo, d’altronde, che la macchina da presa di McQueen si concentra, sulla sua pelle nerissima, colpita, abusata e straziata, proprio come nei film precedenti si era concentrata sulle angherie e le ossessioni del feticcio Michael Fassbender (qui però nelle vesti di uno schiavista psicotico), chiamato, come ricorderete, a interpretare un prigioniero politico in Hunger (2008), quindi un compulsivo del sesso in Shame (2011).

12 Years A SlaveLa macchina da presa. Lo sguardo. Il feticismo dell’occhio. Lo schiavismo nero (e non solo) è esclusivamente questo, con buona pace di chi pretendeva, dopo aver visto la pellicola in esame, di trovare dei risvolti sociali, degli agganci alla politica, delle critiche istituzionali a un sistema che ha dominato “la culla della democrazia” dal 1619, anno in cui una nave olandese sbarcò per errore sulle coste della Virginia, barattando negri per acqua e viveri, fino al fatidico 1865. In fin dei conti McQueen rifugge le blandizie parlamentari di un Lincoln, o le sparatorie coloratissime di Django Unchained, per tornare alla tragicità della storia. Per portare la carne negra, venduta, macellata e stuprata dinnanzi all’attenzione dello spettatore. Certo, non lo fa mai con la morbosità compiaciuta di uno Jacopetti (geniale per tanti motivi, e forse tanto più geniale quanto politicamente scorretto nel realizzare la sua riscrittura dello schiavismo in Addio zio Tom, 1971); ma non ci mette nemmeno la prolissità da barbiturico di Spielberg, che gonfiava la questione della segregazione fino ad astrarne la sostanza in una grande, insopportabile bolla di retorica.12 anni 3

McQueen preferisce un cinema elegantissimo, fatto di grazia di scrittura (lo sceneggiatore è John Ridley, quello di U-Turn) e tanta crudeltà. Alla fine delle due intensissime ore di proiezione, ciò che emerge è uno spaccato di normalità antropologica dell’America ottocentesca, divisa, geograficamente e culturalmente, tra un nord prospero e modernista, e un sud reazionario e geloso delle proprie tradizioni. Un sud in cui picchiare un nero non era reato, né da un punto di vista giuridico, né da quello morale. I due poli della questione sono ben rappresentati da Fassbender, dicevamo latifondista e negriero, e Brad Pitt, un manovale canadese convinto invece che la libertà non abbia colore. Ricordiamoci però che la storia è scritta dai vincitori, e pertanto, come in fin dei conti è giusto che sia, sarà proprio il profondo sud, con i suoi campi di cotone, le praterie e le dimore padronali di profumatissimo legno, a uscirne (di nuovo) sconfitto. Non basterà la risposta sbrigativa di Rossella O’Hara (“Sì, avevamo gli schiavi, ma li trattavamo bene”) per spiegare le violenze capricciose perpetrate da un sadico Paul Dano ai danni del povero Solomon, o le astuzie mercantili di Paul Giamatti, cinico commerciante di uomini, che non esita a dividere una madre dai propri figli, la prima venduta a un latifondista, i secondi ad altri; e non basterà nemmeno l’apparente gentilezza di un padrone “illuminato” (Benedict Cumberbatch), abbastanza attento ai bisogni di Solomon e colpito dalla sua spiccata intelligenza, per convincerci che forse non tutti, giù in Lousiana, erano così cattivi come i libri ce li hanno tramandati. No, a sud erano tutti malvagi, opportunisti, bifolchi e forcaioli. Non è manicheismo, il film di McQueen non cade mai, in nessun momento e per nessuna ragione, nelle facile scappatoie: è la storia quella che conta, quella dei neri, dei bianchi e del denaro che fa girare il mondo. Ce lo spiega bene la schiena deturpata di Lupita Nyong’o, ridotta dalla frusta a un intreccio di linee e scalfitture, che nella loro impressionante complessità ricordano molto bene il dorso di “Peter”: negro del Mississippi che nel 1863 regalò al mondo intero una delle poche fotografie ritraenti i gesti dissennati dell’uomo bianco.

Marco Marchetti

12 anni schiavo

Titolo originale: 12 Years a Slave. Regia: Steve McQueen. Sceneggiatura: John Ridley. Fotografia: Sean Bobbitt. Montaggio: Joe Walker. Musica: Hans Zimmer. Interpreti: Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Paul Giamatti, Brad Pitt, Lupita Nyong’o. Origine: USA, 2013. Durata: 133′.

 

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