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Alla mia piccola Sama

La paura fa 19 (Covid) per cui diventa difficile spostare lo sguardo altrove, ricordare dalla clausura forzata, col disappunto per alcune libertà temporaneamente sacrificate, che in altri scenari si consumano tragedie che per misura e dilatazione nel tempo si impongono in tutta la loro crudeltà. Nella Siria di Assad il massacro di un intero popolo è quasi derubricato dall’informazione, manca dalla prima settimana di marzo nella sua declinazione più attuale, ovvero il dramma dei profughi tra Turchia e Grecia.

Rileggo le prime righe e mi accorgo di averci infilato senza volerlo tre parole agghiaccianti: tragedia, massacro, dramma. E’ bene vederlo For Sama – Alla mia piccola Sama, e comprendere la giornalista Waad al-Kateab quando non stacca mai dal sangue che ad un certo punto inonda le inquadrature del film, copioso dalle ferite mortali sui corpi, anche piccoli corpi bambini, fino quasi ad uscire dallo schermo. Una madre disperata nelle corsie di un ospedale bombardato chiede di non spegnere la macchina da presa, di continuare a girare, perché l’orrore possa farsi racconto, il racconto farsi denuncia, la denuncia smuovere le coscienze. Di chi? ma di noi altri, che siamo aldiquà, nel mondo dove “tutto andrà bene”.
Waad al-Kateab prende la videocamera e gira non perché sia una documentarista, ma perché ha dato alla luce una bambina, Sama, per cui è stritolata dal senso di colpa per averla concepita sotto le bombe, ma ancorata pure al desiderio di vivere in pace nel suo paese, magari con un padre democratico e rispettoso del Diritto Internazionale. Il film è una lettera aperta alla figlia nella speranza che possa sopravvivere; poi è anche un documento eccezionale, un diario di battaglie, di resistenze, di lotte impari, di immagini vere di mura che cadono, di polvere che acceca occhi e obiettivo, di scie rosse lasciate da corpi trascinati verso reparti di rianimazione dove i macchinari si confondono con i calcinacci.

La regista, coadiuvata da Edward Watts, solo dopo aver lasciato il paese attraversando un corridoio umanitario aperto dai russi, ordina il materiale girato secondo una linea imperfetta, ricombinando il tempo in digressioni, salti, ellissi, così da ammorbidire il genocidio (perché di questo si tratta) con l’intimità del privato: l’innamoramento tra lei e il marito medico, sempre in prima linea e tenace oppositore del dittatore; poi il matrimonio celebrato in uno spazio angusto quando sembrava che i ribelli potessero farcela; la nascita di Sama, quando Aleppo puzzava già di inferno.
Perdonami figlia mia perché ho creduto nella forza delle nostre voci, questo in sostanza singhiozza per i 100 minuti di film Waad al-Kateab. Ci vuole un bel coraggio, mentre Assad, spalleggiato da Mosca urla con una pioggia di bombe sui quartieri sbriciolati della città, un assedio che non fa distinzioni anagrafiche o di genere. Le bombe, anzi, cadono sugli ospedali e fanno carneficina di bambini. Non credevo che il mondo restasse a guardare. Eppure la storia contemporanea ci ha insegnato che il mondo guarda, spesso nemmeno guarda. Le diplomazie lavorano, le guerre (soprattutto le moderne guerre civili) raramente si fermano come conseguenza di interventi disinteressati. I ribelli di Aleppo soccombono sotto le macerie e ogni minuto di For Sama diventa una preghiera lancinante che giustifica le immagini più crudeli, facendo crollare anche la teoria baziniana che confinava tra la pornografia l’esibizione degli orrori e del dolore. Ritorna il finale con immagini reali della disperazione delle donne dopo i massacri di Sabra e Shatila nel film d’animazione Valzer con Bashir di Ari Folman, il dibattito sull’urgenza di quelle immagini. Si fa presto a teorizzare dalle poltroncine dei cinema europei. La verità è che difficilmente possiamo arrivare a comprendere la necessità di un cinema, che non è un fine ma uno strumento, che racconta a fatica, con mezzi di fortuna, con un linguaggio che non cerca sofisticatezze ma che ha la pulsionalità dell’urgenza, una catastrofe.

E non possiamo non accostare For SamaStill Recording (vincitore a Venezia nel 2018 nella sezione Settimana della critica), altro documentario che ci aveva impressionato per la capacità di farsi istantanea, ma anche per l’esplicita dichiarazione del cinema come congegno di denuncia, anzi come parte di un armamentario di guerra. Cinema da campo, con regole di ingaggio inedite, videocamera montata su un fucile o su un respiratore in sala operatoria. Mostrare ciò che non vorremmo vedere. E quando Waad al-Kateab coglie un neonato esangue, schiaffeggiato nell’estremo tentativo di restituirlo alla vita, vien voglia di farle un processo. Poi arriva il miracolo, un pianto, la resurrezione. Si capisce che tra le 400 ore di girato, l’episodio non è stato montato lì per caso: è un pezzo di racconto cinematografico che ci áncora a qualcosa che ci è più familiare, anche nell’orrore di questa verità, l’archetipo della speranza.

Alessandro Leone

Alla mia piccola Sama

Regia: Edward Watts, Waad al-Kateab. Fotografia: Waad al-Kateab. Montaggio: Chloe Lambourne, Simon McMahon. Musica: Nainita Desai. Origine: Siria/Regno Unito, 2019. Durata: 100′.

 

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