AutoriIncontriSlideshow

Conversazione con Jonas Carpignano, autore di A Chiara

Navigare una realtà complessa

Jonas Carpignano è nato a New York nel 1984, la madre è originaria delle Barbados. Ha studiato cinema a New York ma tutti i suoi film li ha girati a Gioia Tauro, dove si è trasferito una decina d’anni fa per capire la rivolta di Rosarno e tutto il mondo che gira intorno. Da lì è nato il suo cinema: Mediterranea il suo splendido film di esordio, poi A Ciambra, il film che lo ha fatto conoscere anche in Italia dopo la vittoria alla Quinzaine des Realisateurs e ai David di Donatello nel 2018.

Ho conosciuto Jonas sei anni fa a Strasburgo, eravamo al Parlamento Europeo e ci sentivamo un po’ fuori posto in quel luogo che appare finto. Jonas aveva i capelli rasta in testa e sembrava ancora più giovane dei suoi trent’anni, era in compagnia di Koudous, il protagonista di Mediterranea, un uomo che ha fatto il viaggio sui barconi dal Burkina Faso all’Italia per ritrovarsi a Rosarno. Eravamo un po’ alieni in quel contesto istituzionale, così ci siamo conosciuti e grazie al Lux Prize, il premio del Parlamento Europeo per il cinema indipendente, riuscimmo a portare in Italia quello splendido esordio, un film che non ebbe nessuna distribuzione ufficiale dimostrando purtroppo una certa miopia del sistema distributivo italiano.
In questi giorni esce al cinema A Chiara che è stato presentato ancora una volta a Cannes, dove ha vinto l’Europa Cinema Label, è il film con cui Carpignano chiude probabilmente la sua trilogia su Gioia Tauro e fa un salto rispetto alle storie completamente reali che aveva raccontato fino ad oggi. È un film che racconta di Chiara, una ragazza di 15 anni che vede il suo mondo crollare quando capisce che la sua famiglia è affiliata alla ‘Ndrangheta.
Jonas si trova a Gioia Tauro dove ha presentato in anteprima il film il giorno prima della distribuzione ufficiale. Nell’intervista chiacchieriamo un po’ del film, a mio avviso meraviglioso, e del suo cinema in generale.

Claudio Casazza: Il tuo cinema è fatto di grandi temi (immigrazione, rom, criminalità) ma in verità è un cinema di personaggi, direi di persone prima e di personaggi poi. Credo si veda dai tuoi film sia quando hai raccontato storie reali, che in A Chiara dove fai un salto più verso la narrazione. Mi interessa questo passaggio da persone a personaggi, cosa ne pensi?
Jonas Carpignano: È vero, il punto di partenza è sempre il personaggio, è il centro racconto dei miei film. Dal primo film a questo racconto sempre storie di persone che si trovano in difficoltà, sono persone che navigano una realtà complessa ma il mio punto partenza non è il sociale, non è il tema. Io cerco di costruire le storie attraverso i personaggi, sono loro che mi guidano, con loro capisco il loro mondo, i temi sono sullo sfondo e a poco a poco emergono.
In verità devo dire che c’è una differenza tra i primi due film e quest’ultimo, in Mediterranea e a A Ciambra sono i personaggi che mi dicono dove andare, poiché racconto delle storie vere, le loro storie e gli attori interpretano sé stessi. Sono quasi guidato da loro nel loro viaggio che metto in scena. In A chiara c’è invece una struttura narrativa costruita da me, la famiglia vera di Swamy Rotolo (la ragazza che interpreta Chiara) non è ovviamente legata alla ‘ndrangheta però tutta la famiglia che vediamo nel film è davvero la sua famiglia: la sorella, la mamma, il padre sono davvero i suoi parenti più stretti. Tutto quello che il personaggio di Chiara fa nel film viene da Swamy, il personaggio è così costruito su chi lo interpreta, il lavoro con lei è stato il mio salto più grosso tra persona e personaggio. Il personaggio è di finzione ma l’emozione che prova a trasmettere è vera.

Swamy Rotolo

C.C.: Il film lo dimostra pienamente e l’emozione arriva allo spettatore, mi interessa capire come lavori per arrivare a questa emozione sostanzialmente reale. Com’è stato il rapporto con Swamy per arrivare a questo risultato?
J.C.: Lavoro molto con la scrittura, scrivendo e riscrivendo il film, ho cercato di far aderire la realtà, la vita di Swamy con quella del personaggio che doveva interpretare. La scena che litiga con la mamma o le varie dinamiche con la sorella sono vere, anche il confronto con il padre che è il cuore del film è vero. Ho visto con i miei occhi questi rapporti famigliari così intensi e ho cercato di portarli dentro al film.
Le caratteristiche di Swamy, quella certa dose di violenza e quel pizzico arroganza c’era già in lei (si vede bene nella scena con la ragazzina rom) perciò ho lavorato per farlo emergere nel personaggio in modo importante nel film. Il contesto cambia, la dinamica narrativa è diversa, ma i gesti e le azioni sono sue. Perciò le parole che dice sono costruite, ma l’emozione è vera.

C.C.: Come hai conosciuto la famiglia Rotolo e come sono entrati nel film?
J.C.: Lavorare con attori non professionisti è uno dei vantaggi di vivere a Gioia, la mia vita è qua ed è una ricerca continua, dicono che Gioia abbia 18.000 abitanti ma non è vero, a me pare di conoscere tutti, vedo sempre le stesse facce, li conosco tutti ormai e allora decido di inserirli nei miei film. Gioco a calcio con loro, vado al bar, li conosco e così vengo a contatto con quelli che poi diventano i miei personaggi. Sono ormai inserito in questa comunità, sono arrivato 10 anni fa dopo i fatti di Rosarno e non sono più davvero andato via. Così ho conosciuto prima Koudous e poi Pio (il protagonista di A Ciambra) che poi sono diventati gli “attori” dei miei due film.
Per questo film è stato tutto un po’ diverso poiché avevo scritto il trattamento nel 2014. L’anno dopo sono riuscito a girare il cortometraggio A ciambra (il corto di preparazione al film, un modo di lavorare classico di Jonas, ndr) ed ero qui fare il casting, la zia di Swamy che già conoscevo mi ha portato al cast Swamy che allora aveva 9 anni. Non avevo una parte per lei in quel film ma ho subito pensato che, se mai avessi avuto la fortuna di fare A chiara, avrei pensato a lei come protagonista. Col tempo l’ho vista crescere e anche la sceneggiatura si è costruita con lei, conoscendola ho visto il rapporto con la sorella e con i genitori, e certe dinamiche sono entrate nel film. Così la scrittura del film è cresciuta con la crescita di Swamy, e diciamo che così ho scolpito sui di lei il personaggio che avevo abbozzato nel trattamento del lontano 2014.

C.C.: Il bello del tuo cinema sono per me le sfumature, non esiste il bianco o nero e non esiste retorica. In Mediterranea c’è una scena in cui Koudous ruba una valigia su un treno, Pio in A Ciambra fa le sue cazzate, anche qui Chiara è un personaggio molto contradditorio, capisce il male ma è legata alla famiglia ‘ndranghetista. I tuoi non sono personaggi bidimensionali, sono personaggi che vivono con le loro sfumature, non esiste divisione tra buoni e i cattivi.
J.C.: Io credo che nel mondo di oggi una delle cose peggiori sia proprio eliminare le sfumature, non mi piace questo mondo polarizzato tra bianco e nero come dici tu. I miei personaggi possono fare anche delle scelte sbagliate ma il mio sguardo non deve essere mai giudicante, non posso giudicare senza conoscere le opzioni che avevano prima di fare quelle scelte. Magari fanno scelte che non condivido, e che io non farei mai, ma quello che mi preme capire è perché le fanno. Nei miei film non voglio santificare i miei personaggi, posso anche innamorarmi di chi ruba, apprezzare certe sfumature di persone che vanno fuori dalla legalità o dal mio concetto di moralità, ma non sono degli eroi e non sono dei mostri. Quello che cerco di fare è di non definire le persone con quello che fanno, con il loro mestiere o con le azioni che compiono, o peggio ancora con i loro sbagli. La vita di queste persone è molto più complessa e non sono certo io che devo giudicarla.
Non voglio essere in linea con quell’ideologia dominante che divide le persone in buoni e cattivi, credo anche che gli spettatori possono capire i personaggi e le loro scelte, non hanno bisogno che tutto sia scritto, tutto sia raccontato in modo netto e chiaro.
Devo dire che paradossalmente questo discorso è stato più facile nei primi due film: ho mostrato Koudous e Pio, immigrati e rom con i loro problemi, i loro pregi e loro debolezze. Con questo nuovo film e il rapporto con l’ndrangheta è stato più difficile, è stato più delicato.

C.C.: In questo film infatti c’è un ruolo importante anche dello Stato, la storia che racconti è di una ragazza che è costretta a fare delle scelte e a un certo punto un’assistente sociale prova a togliere la ragazza dalla sua famiglia in nome della legalità. In queste scene c’è uno stacco tra il mondo della ragazza e il mondo delle istituzioni, e c’è anche uno stacco di linguaggio, infatti le tre scene con lo Stato protagonista (la scuola, l’ufficio del tribunale e il treno) sono molto diverse dal resto del film.
J.C.: Negli altri miei film diciamo che l’architettura del film è arrivata andando, seguendo i personaggi nel loro mondo e andando via con loro alla ricerca del loro posto del mondo. In questo invece avevo bisogno di un qualcosa di diverso per fare capire la scelta dolorosa che doveva fare Chiara. Dovevo anche per far comprendere la complessità della legge che permette allo Stato di separare i ragazzi dalle loro famiglie legate alla ‘Ndrangheta. Chi ha scritto questa legge è, secondo me, lontano dalla realtà, come si capisce dal film non condivido molto di questo intervento dello Stato, e allo stesso tempo non lo comprende Chiara, credo che giudicare questo mondo da fuori è sicuramente diverso che da dentro.
Per rendere questo scarto tra lo Stato e il mondo di Chiara ho fatto perciò delle scelte formali, infatti come dici tu ho usato un linguaggio diverso per creare questo scarto: queste tre scene sono girate in 35mm, sono più pulite, c’è più profondità di campo, c’è molta più luce, gli attori sono tutti truccati. La camera è addirittura stabilizzata, una cosa che per me non esiste, non l’ho mai stabilizzata in nessun mio film, c’è addirittura un carrello!
Avevo bisogno di mostrare un mondo alieno per Chiara, staccato dalla sua realtà, un mondo istituzionale che non è fatto della stessa materia della vita di Chiara. Infatti quando Chiara scappa dal treno io torno a girare in super16, la camera torna a mano e la focale più stretta. Torniamo nel suo mondo. Poi il 35mm l’ho riutilizzato nella scena finale sempre per lo stesso discorso dello stacco dal mondo di Chiara.

C.C.: A proposito di queste scene, è interessante come hai scelto l’assistente sociale del film, anche lei con la sua recitazione istituzionale è molto straniante rispetto al film.
J.C.: Questa storia è divertente perché l’assistente sociale del film è la mia prima padrona di casa a Gioia, si chiama Concetta Grillo, è un giudice che si occupa proprio di reati sui bambini. Lei è così davvero, quel che dice nel film è quello che realmente pensa, ed è evidente che è un mondo totalmente diverso da quello di Chiara. È una persona che crede davvero a quello che dice, non volevo un’attrice perché avevo bisogno proprio del distacco con Chiara, non mi serviva qualcuno che recitasse ma qualcuno che avesse anche un linguaggio e un modo di parlare giuridico, perciò ho pensato subito a lei. È stata proprio lei che anni fa mi ha raccontato di questa legge e molte storie di queste famiglie. Con questa scena il mio obiettivo era proprio distanziare Chiara dallo Stato e sono contento che queste scene siano percepite come “diverse” dal resto del film; sono scene secche, quasi didascaliche anche formalmente, vanno subito al punto, sono molto diverse dal mio classico modo di girare, nel quale mi perdo con inquadrature lunghe, dispersive, eccessive per alcuni…(ride).

C.C.: A proposito di lunghe sequenze, dobbiamo parlare di una delle scene di apertura del film, secondo me straordinaria: la scena della festa organizzata dalla famiglia di Chiara per celebrare i 18 anni della figlia maggiore, la sorella di Chiara stessa.
J.C.: Devo dire che è una scena che nella prima sceneggiatura non avevo scritto e che la realtà mi ha suggerito. Infatti quattro anni fa mi hanno invitato a un diciottesimo di un’amica proprio nello stesso posto che vedi nel film, qui a Gioia. È stato il mio primo “diciottesimo” qui e da lì ho capito che i compleanni al Sud sono così. Lunghi, pazzi, divertenti. E allora ho deciso di costruire una scena esattamente come l’ho vissuta nel film.
Vedendo con i miei occhi una festa del genere ho capito che poteva essere una scena importante per questo film. Tutti sono felici, la famiglia è molto unita, nonostante una sana e normalissima rivalità tra la festeggiata e Chiara. La scena è un’immersione completa dentro le dinamiche di questa famiglia, mi serviva per far stare lo spettatore a contatto con la famiglia di Chiara e non con la “Famiglia” ndranghetista. È utile per capire quanto solo legate queste persone, senza spiegare troppo, mostrando questi legami lo spettatore capisce chi sono e accorcia la distanza con Chiara, una cosa che è necessaria per capire le difficoltà che avrà la ragazza quando il suo mondo esploderà, quando capirà che il padre è un affiliato dell’ndrangheta.

C.C.: Questa scena iniziale è una scena complessa con molti personaggi, poi invece il film è più simile ai tuoi precedenti con pochi personaggi e Chiara come protagonista assoluta. Tecnicamente come giri il film, la troupe è sempre la stessa o cambia nelle riprese?
J.C.: Più o meno la troupe è sempre la stessa, il nucleo è uguale, siamo in dieci persone che a volte diventano 12-13. Questa volta eravamo però in trenta all’inizio, soprattutto per la prima scena che era complessa. Però dopo tre settimane è arrivato il lockdown e alcuni sono tornati a casa, siamo rimasti qua in nove e siamo andati due mesi in quarantena tutti insieme qui a Gioia.
Abbiamo creato una bolla e con il senno di poi è stato un vantaggio, abbiamo creato un gruppo ancora più stretto. Ritrovata la possibilità di girare siamo ripartiti con un bisogno di intimità diverso. Alla fine penso che la pandemia abbiamo esaltato il senso di famiglia anche della troupe oltre che di Swamy con la sua di famiglia. Prima del lockdown avevamo girato tre settimane di riprese, alla ripartenza dovevano essercene ancora quattro ma visto che siamo rimasti in pochi sono diventate sette settimane oltre il pezzo di Urbino che abbiamo fatto un anno dopo per far crescere Swamy. Alla fine siamo rimasti circa un anno e mezzo per girare, creando davvero un gruppo unito che spero si veda nel film.

C.C.: In A Chiara ci sono anche Koudous e Pio che sono cresciuti ovviamente in questi anni, sembra quasi che hai voluto, anche con la loro presenza, chiudere un cerchio di questa trilogia calabrese, il tuo cinema si sposterà dopo questo film?
J.C.: È vero ci sono Koudos e Pio, tra l’altro Koudous indossa anche una felpa tarocca con scritto Italia (sembra quella di Salvini) che è la stessa che usava in Mediterranea, con la sua presenza volevo mostrare come si è integrato, nonostante i mille problemi, in questa comunità. Anche Pio è cresciuto dopo A Ciambra, infatti lo vediamo in una scena in cui protegge una ragazza, è quasi adulto e fa un gesto da adulto. La loro presenza mi permette di fare un ragionamento sulla gerarchia/architettura dei rapporti sociali, volevo far conoscere al pubblico com’è cambiata la vita delle persone oltre ai personaggi dei film che ho realizzato.
Ora la mia vita si alterna tra qui e Palermo per motivi famigliari, ed è vero che nel prossimo film mi staccherò da questa terra ma il mio sguardo, il mio approccio al cinema sarà sempre lo stesso. Il mio modo di fare film è quello che ho imparato qui, è quello che ho maturato in questi luoghi e questo lo voglio portare avanti sicuramente.

C.C.: Per chiudere mi piacerebbe sapere che film ti piacciono, quale cinema ami particolarmente?
J.C.: Dico sempre che la decisione di vivere e lavorare qui in Italia è anche per il legame con cinema italiano, sia per la parentela con Emmer (il padre di Jonas è un professore di italiano nipote del regista Luciano Emmer, ndr) che per il mio amore del cinema del neorealismo, Rossellini in particolare. Però mio nonno ha lavorato anche con Lamberto Bava, e da piccolo ho visto tutti i film del padre di Lamberto, il grande Mario Bava che è un regista cardine dell’horror e del cinema di genere in particolare. Perciò mi piace il cinema in tutta la sua forza, mi piace vedere di tutto e ovviamente molto cinema italiano contemporaneo a cui sono legato anche per le affinità col mio, da Pietro Marcello a Alice Rohrwacher che amo particolarmente, Il buco di Michelangelo Frammartino è il film più bello che ho visto a Venezia, è straordinario quello che riesce a fare Frammartino.
Ma devo dire che anche con Titane mi son divertito, non vedo solo film simili al mio modo di fare cinema, un film come questo che cerca di stupire, che crea divisione tra il pubblico mi piace, è un film che crea dibattito, in cui la gente ha un’opinione, piaccia o non piaccia è cinema che non dimentichi quando esci dalla sala.
Ma se andiamo indietro nel tempo il cinema che amo di più è quello della New Hollywood anni ’70, di Cassavetes e quello di Robert Altman soprattutto. Tutto Altman anche se per me Nashville è il suo massimo, lo avrò visto 40/45 volte, è stupendo.
Amo in particolare il modo di lavorare di Joan Tewkesbury, la sceneggiatrice del film, è un po’ quello che cerco di fare anche io. Il suo approccio è meraviglioso, per scrivere il film si è trasferita e radicata a Nashville per 3 anni. Quello è il mio cinema, vivere in un posto, conoscere, vedere, incontrare persone, scrivere tutto, e poi a poco a poco arrivano le storie, poi il film. È un cinema radicato nella realtà, con persone che esistono davvero, che poi diventano personaggi che vivono nei film.

a cura di Claudio Casazza

Topics
Vedi altro

Articoli correlati

Back to top button
Close