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Dune (Part 1)

Dal Dune di Denis Villeneuve non ci si aspettava molto perché c’era poco o nulla da cui aspettarsi qualcosa. Invece il film dell’ormai sdoganatissimo regista canadese supera le peggiori aspettative che una certa presunzione di autorialità lasciava opportunamente subodorare. Siamo semmai dalle parti di un filmaccio archeologico, fossilizzato e fossilizzante, che soltanto qualche audacissimo del genere potrebbe ancora definire, e con sommo e ardimentoso coraggio, postmoderno. Eccoci di nuovo, come sempre, a guardare al passato. Non tanto il passato e trapassato del modello fantascientifico, ma quello prossimo delle teorizzazioni, quel conglomerato di riflessioni che sovente amalgamano filosofia, spunti critici e varie ed eventuali sezioni auree dell’estetica cinematografica. Salvo poi finire sottoterra come i vermi giganti di Dune e non uscirne più. In altre e più semplici parole: cos’è il postmoderno? Se lo chiedeva, uno fra i tanti, Gianni Canova che all’argomento ci ha dedicato almeno un saggio a suo modo epocale, L’alieno e il pipistrello (Bompiani, 2000): due grandi personaggi della science-fiction, Alien e Batman, collidevano come mondi siderali nell’esplicitazione di una crisi immensa, quella dello sguardo contemporaneo che è al contempo crisirevisionata, ipotizzata e ripensata della forma-cinema. Per definire il postmoderno bisognerebbe riconoscere il significato di modernità, che resta un concetto più liquido delle sepolcrali sabbie in cui la produzione del nuovo Dune ficca i suoi personaggi, le astronavi e tutte le chincaglierie da visione retro-futurista. Postmoderno: ciò che si attacca al moderno, che lo compenetra superandolo, forse e certamente decifrandolo come complemento di specificazione, ma pur sempre delimitabile in quanto raggruppamento di sostanze eterogenee; stili divergenti si scontrano in curiose combinazioni, dall’eclettismo all’orientalismo, alle fioriture composite di pensieri, intuizioni e temerarie sperimentazioni di stile, linguaggio ecc. Insomma, piatto ricco mi ci ficco e, metafora culinaria dentro la metafora, tutto fa brodo per allungare la delucidazione con ogni tipo di variazione sul tema.

Chi scrive non riuscirebbe nemmeno a ricostruire la trama di questa pellicola ineffabile, pieni di grandi e insopportabili star, soprattutto perché Villeneuve sintetizza ed edulcora la sua illogica dei massimi sistemi retorici: l’epocale ed eterna lotta tra il Bene e il Male, qui declinandola in geroglifici concettuali in cui è più comodo perdersi che trovarsi. Sì, Dune Parte Uno di una serie altrettanto coreografata, coniugata nelle plurime flessioni dell’Herbert-pensiero, è un grande labirinto non dissimile, pur al netto dei dovuti distinguo, da quello di Tenet: lì, Christopher Nolan scoordinava e intersecava le planimetrie di un presente che si faceva paradosso in costante riconfigurazione; qui Villeneuve punta sugli spazi di un futuro retrodatato che, lambendo le sponde incerte del fantasy, finisce per giustificare la germinazione di ogni forma (e formula) di cretinismo. Provate a contestualizzare l’opera nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: Dune nuova versione di un precedente testo letterario o cinematografico scomoda l’effettismo stratificato degli ultimi decenni di fantascienza cinematografica. Blade Runner, Matrix, Star Wars, persino Prometheus da cui mutua uno degli sceneggiatori… Saghe fagocitanti ormai collassate sotto il peso di puri artifici visivi gocciolanti denari, limitatissime all’espediente di inseguimenti mirabolanti, mutazioni videoludiche, incroci perniciosi tra lo spessore incerto della contemporaneità e l’elegiaca tensione all’interpretare la Storia; Villeneuve ci mette le ultime guerre petrolifere, lo scontro tra mondi terrestri che, divisi dai costumi ma accomunati dagli stessi spazi, finiscono per assurgere a paradigma di un’altra, fastidiosa universalità: l’Occidente colonialista che sfrutta le risorse dei paesi terzomondisti. È d’altronde la medesima metafora di Mad Max: Fury Road con tanto di mandanti ed esecutori materiali: i perfidi Harkonnen, i beduini del deserto Fremen (free men) e via discorrendo.

Fin qui niente di strano, eppure il sospetto si fa strada, almeno nello spettatore più smaliziato: a che tipo di pubblico si rivolge questa ombrosissima forma di consumismo culturale? Agli istruiti, ai laureati, agli specialisti di qualsiasi argomentazione storica, cioè a quelli che, sentendo parlare di casata atrìde, subito rievocano classiche rappresentazioni da teatro greco? Oppure all’occhialuta impiegatuccia da sottoscala, dal fare addormentato e con parecchi chili da smaltire? All’apprendista idraulico che non saprebbe neppure immaginare gli ambienti sociali di una biblioteca? A giudicare dalla fauna umana variamente assiepata per le poltrone del multisala (e dai rifiuti abbandonati nei corridoi), si propenderebbe per la seconda ipotesi. Allora, in questo continuo e altrettanto perverso gioco di incastri retorici, sorge un secondo quesito: per quanto accetteremo, moralmente e intellettualmente, di rappresentare la guerra come un videogioco? Ridurre la complessità del mondo che abitiamo a un banalissimo blockbuster di quasi duecento milioni di dollari sarà il modo migliore per “educare” il pubblico a riflettere sui nostri tempi? Certo, il cinema è innanzitutto arte dell’intrattenimento, e a questo ci hanno pensato quelli di Amazon Prime Video con La guerra di domani a firma di Chris McKay: sboccato, divertente, esuberante, e pare persino più costoso dell’operazione di Villeneuve. Ma almeno McKay, mestierante da retrovia, non si prende sul serio e non fa la lezioncina con la scusa di trasformare l’articolazione della geopolitica in un concetto fast-food.

Marco Marchetti

Dune

Regia: Denis Villeneuve. Sceneggiatura: Erich Roth, Denis Villeneuve, Joe Spaiths. Fotografia: Greig Fraser. Montaggio: Joe Walker. Interpreti: Timothée Chamalet, Rebecca Ferguson, Oscar Isaac, Josh Brolin. Origine: USA, 2021. Durata: 155′.

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