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Ganzfeld, il campo totale di Turrell

Se apriamo una finestra sulla mostra in corso nella cornice di Villa Panza a Varese, non è per esaltarne gli aspetti positivi, dopo la proroga di un mese che fa seguito al successo di pubblico. Aisthesis – All’origine delle sensazioni in verità propone un numero esiguo di opere di Robert Irwin e James Turrell, supportate dalla permanente nei locali della villa.
james-turrell-ganzfeld-villa-panzaIn questa sede ci soffermiamo però su un’installazione di Turrell che ripropone una riflessione sul rapporto tra spettatore e schermo cinematografico: Ganzfeld “Sight Unseen”. Come recita uno dei cartelli in mostra, “il termine tedesco Ganzfeld (che in italiano si traduce ‘campo totale’) indica in psicologia una tecnica di deprivazione sensoriale che descrive il fenomeno della perdita totale di percezione della profondità”. Per raggiungere tale effetto Turrell crea uno spazio artificiale in cui una luce diffusa e l’assenza di angoli e spigoli disorientano il visitatore, chiamato non solo ad osservare l’opera ma anche a camminarci dentro. Un po’ come l’ambiente di Doug Wheeler che apre L’illusione della luce, mostra veneziana ancora in corso a Palazzo Grassi (https://www.cinequanon.it/lillusione-della-luce-a-venezia/). Turrell, a cui Wheeler deve l’ispirazione, non si limita però al semplice campo visivo omogeneo, che attira lo spettatore come fosse una falena, verso un disorientante spazio luminoso senza apparenti confini, pieno e vuoto al tempo stesso; il suo Ganzfeld, oltre ad essere un “nuovo paesaggio senza orizzonte” – come lui stesso lo definisce – è un’esperienza di attraversamento di soglia, che introduce ad un mondo metafisico, ovvero un luogo dove le leggi della fisica non garantiscono nessun tipo di familiarità con i concetti spaziali già esperiti. Al Ganzfeld di Villa Panza si accede salendo una breve rampa di scale e attraversando un’apertura rettangolare, dopo un’attesa di qualche minuto, giusto il tempo di preparare l’occhio alle varianti luminose che “accendono” l’ambiente retrostante. Osservato dal basso, l’accesso all’opera rinvia allo schermo cinematografico nell’attimo che precede la comparsa delle immagini. Le variazioni di colore annullano ogni profondità di campo e invitano all’attraversamento. Non si tratta però di scavalcare il confine fisico che separa la realtà dalla sua rappresentazione (in tutte le possibili declinazioni di genere) come accadeva per Keaton in Sherlock Jr. o ne La Rosa Purpurea del Cairo, in entrambi i sensi. Piuttosto siamo di fronte a uno spiazzante sfondamento di una superficie bidimensionale (uno schermo appunto), che potrebbe somigliare al quadro bianco su fondo bianco di Malevič o all’immersione nelle superfici blu di Anish Kapoor, che introduce quindi a una contenitore pre-cinematografico, una materia che è luce senza ancora forma filmica e, dunque, senza racconto. 
Dall’interno la sensazione di fluttuare si combina con l’ancestrale paura per il vuoto e la mancanza di appigli: il pavimento diventa improvvisamente tutto ciò che rimane di familiare, mentre l’occhio si sforza di scorgere segni conosciuti. Per questo l’entrata rettangolare, vista in controcampo rafforza l’emozione  di un viaggio nell’ignoto. Se poi capita di non essere dentro da soli e si ha la fortuna di osservare dall’interno un visitatore indeciso scavallare costantemente la soglia fino a scomparire fuori, dove il corpo torna ad essere centrale nella comprensione del mondo, allora l’esperienza è completa, lo shock si trasforma in compiacimento, l’astrazione diventa narrazione di un percorso immersivo che realizza concretamente il sogno (o l’avventura) di farsi segno (o attore) nel campo polisemico di un’opera d’arte.

In mostra a Villa Panza, vedi http://www.aisthesis-fai.it/

Alessandro Leone

 

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