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I film premiati del 71° Trento Film Festival

Il documentario Polaris della regista spagnola Ainara Vera si è aggiudicato la Genziana d’oro di miglior film del 71° Trento Film Festival, tornato a riempire le sue sale quasi ai livelli del pre-pandemia. È la storia di Hayat, capitana di una nave nell’Artico, una vita in fuga dal passato, dai traumi familiari, con la madre tossicodipendente e morta, il padre mai conosciuto. Il rapporto con la sorella Leila, l’unico legame che possiede e che è incinta e avrà una figlia, Inaya. La protagonista parla del peso di doversi fare rispettare dall’equipaggio di uomini e di dover respingere gli approcci, della paura di non saper amare dettata dal non essere stata amata. La scelta del mare e dell’Artico rappresentano una fuga dai traumi giovanili, ma resta il desiderio di creare dei legami. È un film delicato, dalle buone atmosfere, che rende bene il rapporto tra sorelle, finché entra un uomo che non si vede quasi mai. Il documentario perde a quel punto il filo, c’è qualcosa che non vuole e non può mostrare. Così il percorso sembra restare a metà, di non portare a pieno sviluppo le buone premesse dei primi due terzi, non mi sembra niente di eccezionale. Non basta la volontà delle due donne di lottare per cambiare un destino che sembra gravare su di loro.
La Genziana d’oro come “Miglior film di alpinismo, popolazioni e vita di montagna” è andato allo statunitense An Accidental Life di Henna Taylor. Lo stesso riconoscimento fu assegnato un anno fa al cinese Il respiro della foresta – Dark Red Forest di Huaqing Jin, che esce nelle sale italiane come evento per Wanted Cinema il 22, il 23 e il 24 maggio. Menzione speciale all’ucraino Plai. A Mountain Path di Eva Dzhyshyashvili. La storia Hannusia e Dmytro Malkovych, una coppia di un remoto villaggio tra i monti Carpazi, sposati da oltre trent’anni. La loro vita è cambiata da quando Dmytro ha perso una gamba combattendo per difendere l’indipendenza dell’Ucraina. La coppia resiste alle avversità, ama i propri figli e la propria terra, restando unita e serena come le montagne che la circonda.
La Genziana d’oro quale miglior film di esplorazione o avventura è assegnata al bellissimo The Fire Within: A Requiem for Katia and Maurice Krafft di Werner Herzog sulla coppia di vulcanologi francesi protagonisti anche di Fire of Love di Sara Dosa, premio del pubblico di Trento proprio nel 2022. Un nuovo omaggio a una coppia di scienziati avventurosi, morti insieme il 3 giugno 1991 in Giappone, travolti dall’eruzione dell’Unzen, ponendosi da un nuovo punto di vista e mostrando che risultati differenti si possano ottenere pur lavorando agli stessi materiali d’archivio. Quanto la Dosa faceva emergere la storia d’amore totale e folle in un melodramma fiammeggiante, così Herzog ne fa un altro bellissimo tassello della sua scoperta della natura, maestosa e paurosa allo stesso tempo. Il grande regista tedesco, che già aveva usato alcuni minuti delle immagini dei Krafft per Into the Inferno, il suo film sui vulcani del 2016, dice che avrebbe voluto accompagnarli nelle loro esplorazioni, stare al loro fianco nell’arrivare tra i primi nei pressi dei vulcani in eruzione e fa intendere che forse desiderebbe essere stato al loro posto in quel finale che lascia senza parole. Avevano “il fuoco dentro” e questo li ha accomunati e portati a vivere circa 25 anni di viaggi e osservazioni. The Fire Within, arricchito come sempre dalla voce narrante di Herzog e da musiche sempre pertinenti, è un inno alla meraviglia della natura, un invito all’incanto e una presa di consapevolezza dei suoi aspetti terribili: ci si può ritrovare qualcosa di Terrence Malick. Il film parte dal finale, dal 1991, per ritornarci dopo aver ripercorso le loro vite unite dalla lava, dai lapilli e dalla distruzione. È anche molto herzoghiano nel porsi sogni che sembrano impossibili, nel superare le difficoltà, nell’affrontare condizioni ai limiti che fanno tornare alla mente Fitzarraldo e non solo.

Genziana d’argento per il miglior contributo tecnico – artistico al soprendente corto animato portoghese Ice Merchants di João Gonzalez, che parla del lavoro in montagna, della pazienza, della fiducia e pure dei cambiamenti climatici con un tratto di disegno unico e una sottile ironia e una grazia che coinvolgono.
La Genziana d’argento – Miglior cortometraggio è andata al francese Churchill, Polar Bear Town di Annabelle Amoros, un altro dei diversi lavori sulle terre artiche, “per lo sguardo lucido e ironico sulla difficile e a volte surreale convivenza tra uomini e animali alla frontiera della crisi climatica”.

Il Premio del pubblico per il miglior film di alpinismo è andato a L’ultima via di Riccardo Bee di Emanuele Confortin, che ricostruisce vita e imprese poco note dell’ingegnere bellunese morto a fine 1982 in una scalata in solitaria sull’Agner, una montagna che era stata la sua ossessione di vita. Confortin racconta un alpinista noto a pochi, capace di salite ardite a pochi chilometri da casa senza bisogno di inseguire le vette famose (per quanto l’Agner sia stato un pezzo di storia dell’alpinismo con le imprese degli anni ‘20 e ‘30, come quelle di Alfonso Vinci che ha dato il nome a una delle vie più classiche). Il film si avvale delle testimonianze della moglie, rimasta sola giovanissima, e delle due figlie, oltre che qualche amico (ci sono spezzoni di filmati girati da loro che danno un’idea del coraggio e della capacità di intuire i passaggi di salita di Bee). Se i materiali sono buoni, in film paga qualche ripetizione, una costruzione narrativa non fluida e risulta un po’ lungo.
Il Premio del pubblico Miglior lungometraggio è stato assegnato all’americano Wild Life di Elizabeth Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin, storia che può per certi versi riportare alla memoria Il sale della Terra di Wim Wenders e Julian Salgado, forse con immagini che colpiscono meno ma con una proposta di protezione dell’ambiente. Si parte nel dicembre 2015 in Patagonia, alla morte dell’imprenditore (fondatore dell’azienda The North Face e non solo) e alpinista statunitense Douglas Tompkins. Era arrivato la prima volta nel sud del Cile nel 1961 a sciare, poi un viaggio nel 1968 a scalare, che ebbe nel mitico FitzRoy la conquista maggiore, con l’amico Yvon Chouinard e lì ebbe l’idea di fondare l’altro marchio di abbigliamento Patagonia. I due ci tornarono nell’86, mentre stavano costruendo il viaggio di Chalten, e si accorsero del cambiamento climatico in atto. Nel 1990 la decisione di farne la propria residenza, dopo aver lasciato ogni incarico, poi il matrimonio con la seconda moglie Kris, alta dirigente proprio di Patagonia, con la quale condivideva l’amore per quelle terre e la sensibilità ambientale. Dalle prime aziende agricole, i due cominciarono ad acquistare terreni a poco prezzo con l’idea di creare parchi e per sottrarli allo sfruttamento minerario, energetico e forestale. Trovarono anche l’opposizione del governo cileno di destra e degli imprenditori locali, che li vedevano come intrusi e nemici del “progresso”. Dopo la morte di Tompkins, la moglie Kris ne portò avanti con decisione gli obiettivi, superando una crisi iniziale, fino all’accordo con la presidente cilena Michelle Bachelet per la cessione delle terre e l’istituzione e l’allargamento dei parchi. Interessante che il film sia punteggiato dall’ascensione della donna alla montagna più alta del parco, il Cerro Kristine, salito in prima assoluta e dedicatole da Doug. È un film che tocca in maniera convincente tante cose: la storia di Doug, la coppia, le aziende di attrezzatura per la montagna, l’amore per la Patagonia e la protezione dell’ambiente. È anche uno spaccato di un’epoca, non va dimenticato che una band simbolo come i Grateful Dead si esibì all’inaugurazione del primo negozio The North Face. È un sogno folle e realizzato, Il sale della terra più in grande, almeno dal punto di vista dell’ambiente. L’obiettivo che si pongono Kris e la sua organizzazione è alto ed entusiasmante – ricostruire gli habitat e reintrodurre gli animali scomparsi – e non è detto che non nasconda controindicazioni. Forse non è il modello perfetto, ma è certo un’esperienza e una possibilità di salvaguardia dell’ambiente. E i due registi, noti per Free Solo, sanno raccontare in modo convincente e appassionante.

Tra le proiezioni speciali l’attualissimo L’ors di Alessandro Abba Legnazzi sull’uccisione dell’orso M13 in Val Poschiavo, utilizzando in maniera originale ed efficace il documentario e la finzione. Nella sezione Alp&Ism è stato presentato Mirella d’arte e di montagna di Paola Nessi, un ritratto intimo e delicato della scrittrice lecchese Mirella Tenderini, specializzata in biografie di grandi alpinisti ed esploratori.
Da menzionare in concorso The Visitors della ceca Veronika Lišková, che ha seguito la ricercatrice slovacca Zdenka nella sua scelta di trasferirsi con marito e due figli piccoli alle isole Svalbard, per studiarne i cambiamenti sociali. Terre di nessuno del freddo nord di bandiera norvegese, ma senza bisogno di permessi per viverci, essendo sufficienti un lavoro e un reddito adeguati. Requisiti non così semplici da soddisfare per isole di grande rilevanza strategica ma con poco da offrire, se non miniere di carbone in via d’abbandono, e un turismo in crescita. Il film ritrae la donna nel suo rapporto con i figli, che scoprono la natura affascinante e difficile, e con il marito, una figura molto interessante che avrebbe avuto bisogno anche di più spazio, che smitizza l’ambientalismo facile da posizioni ancor più esigenti e l’idea di “isole a impatto zero”, che sembrano solo uno slogan per terre che hanno bisogno di importare tutti i beni materiali. Zdenka incontra gli abitanti delle isole, scienziati, guardiani, operai, imprenditori turistici, ascolta le loro storie, le loro motivazioni e le loro speranze. Intanto il governo norvegese vorrebbe limitare le presenze di stranieri e non fa molto per permetterne l’inserimento, neppure corsi di lingua, mentre il turismo continua a crescere e, tra navi e aerei e folate di arrivi, rischia di mettere a repentagli i delicati equilibri ambientali dell’area. Soprattutto il film è esistenzialista sul senso di vivere alle Svalbard provvisoriamente o in via definitiva, tenendo conto delle trasformazioni (anche dettate dal cambiamento climatico) in atto.
Tra i corti è interessante Journey to Jagdula di Jordan Carroll che, in occasione del centenario del Pinnacle Club, celebre istituzione alpinistica femminile inglese, ha ricostruito la spedizione in Nepal di sei donne alpiniste britanniche nel 1962 per scalare una vetta mai scalata. Il regista intervista le protagoniste ancora in vita e utilizza filmati e fotografie realizzate da loro durante il viaggio e l’ascensione.
Ancora arrampicata al femminile, con uno spirito più moderno, This is Beth di Jen Randall con Beth Rodden, già moglie di Tommy Caldwell, con il quale condivise diverse imprese a El Capitan ma non solo nel primo decennio dei 2000. Poi la separazione da Caldwell e l’inizio di una nuova vita, con la maternità senza dimenticare l’arrampicata, con una nuova consapevolezza. Il corto è però centrato sul rapporto, una vera lotta, della Rodden con il proprio corpo, un aspetto “non da atleta” che l’ha sempre condizionata e condotta verso gravi disturbi alimentari, anche se non ne ha mai frenato attività e risultati. Un film sull’accettazione di sé.
Per ultimo, merita attenzione A passo d’uomo – Sur le chemins noir di Denis Imbert, che sarà portato nelle sale italiane in ottobre da Wanted Cinema. Jean Dujardin interpreta il film tratto dal libro autobiografico dello scrittore transalpino Sylvain Tesson già protagonista de La pantera delle nevi. Un on the road a piedi attraversando il sud della Francia, dal confine italiano e dal fiume Roya fino a Mont Saint Michel e l’oceano, per 1300 chilometri per montagne e valli. Dopo un serio infortunio alle gambe (ubriaco, era caduto da un balcone), l’affermato scrittore ed esploratore Pierre decide di intraprendere un viaggio nonostante condizioni fisiche ancora precarie. Un uomo che ha sempre camminato, ha fatto del camminare uno dei sui modi di vivere ed esprimersi (illuminante la lettera della madre del 1990) e non vuole rinunciarci a causa dell’incidente. A tratti cammina incerto e insicuro, ma procede da solo, anche in tratti erti o poco segnati, sul pietrame. Pierre percorre una Francia sconosciuta, fascinosa e abbandonata: la valle del Var, Cantal, Creuse, Ardeche, passa anche da Vichy, pur non nominandola. Sono parte del genere e dell’avventura gli incontri, anche se per ore e giorni non si imbatte in nessuno. Lo soccorre dopo una piccola caduta (uno dei passaggi più meccanici della sceneggiatura) il giovane Dylan, che compie un’escursione di qualche giorno per elaborare il lutto per la perdita del padre: con lui parla di Henry David Thoreau. Più tardi lo raggiunge, per accompagnarlo in un tratto, l’amico avventuriero Arnaud. Una tappa a visitare una zia e la sosta un un monastero, con un dialogo con un frate in cui si accenna alla vocazione. E poi ci sono i tanti (forse un po’ troppi) flash-back del passato recente e i pensieri del protagonista che rendono la dimensione interiore ed esteriore del viaggio, le riflessioni su malattia, vita selvatica e urbana, paesaggio e spopolamento delle valli, il rapporto con natura e la questione ambientale. Afferma, e come non essere d’accordo con lui, di non essere mai stato passatista o nostalgico, ma di esserlo un po’ diventato per come si sono evoluti il mondo e le cose. Il fatto che viaggi ancora con la mappa cartacea (da là proviene il titolo originale), senza mappe sul telefono, rappresenta più di una dichiarazione d’intenti. Da apprezzare anche il fatto che si mostrino bei paesaggi senza poeticizzarli inutilmente e senza contemplarli più del necessario. Forse il regista avrebbe potuto osare di più, ma è un film che può arrivare a tutti e forse era l’obiettivo principale.

Nicola Falcinella

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