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Icíar Bollaín: Osservazione, cinema, solidarietà e altre conseguenze

La regista spagnola si racconta a Filmstudio 90

Icíar Bollaín, regista e attrice spagnola, tra le autrici di punta del cinema europeo, ha presentato al cinema Nuovo di Varese El olivo (2016), film inaugurale di Esterno Notte, rassegna storica di Filmstudio 90 che quest’anno giunge alla 35ª edizione. Per l’occasione Giulio Rossini mi ha chiesto di tracciare un profilo della cineasta madrilena. Cogliere lo spirito di quella serata, prendendo anche spunto dalla conversazione che abbiamo avuto con il pubblico, è il proposito di queste righe.

Iciar Bollain con Giulio Rossini e José-Joaquín Beeme a Filmstudio90

La sessione è stata aperta da un breve reel con i suoi film, sia come attrice (da quel folgorante debutto in El sur di Victor Erice, in mano un pendolo da rabdomante del padre repubblicano: memorabile Omero Antonutti), sia come regista: También la lluvia e La boda de Rosa (Il matrimonio di Rosa) sono già comparse al Cinema Teatro Nuovo. E tutti, anche coloro che stanno appena iniziando a scoprire la sua filmografia, capiscono molto presto che si tratta di una regista dallo sguardo potente ed empatico, che sceglie fin dall’inizio il cinema della realtà per raccontare storie intime ma in grado di sintetizzare, senza vizi retorici o proclami ideologici, problemi socio-politici di vasta portata come l’accoglienza delle donne migranti e la xenofobia, la violenza di genere, la difficile conciliazione lavoro-famiglia, il neocolonialismo sull’America ispanica, la diaspora indotta dalla disoccupazione, l’ecofemminismo, l’emancipazione attraverso l’arte, il solipsismo contemporaneo o la giustizia riparativa del dopo-ETA.

Iciar Bollain in Terra e Libertà

Temi che riecheggiano quelli del maestro Ken Loach, a cui arriva con Terra e libertà (prorompente Maite, una miliziana del POUM) per seguirlo poi ne La canzone di Carla con un personale diario di lavorazione tra Glasgow e il Nicaragua. Paul Laverty debuttò lì come sceneggiatore e incontrò Icíar: da allora hanno concepito insieme figli e film. Ricorda lei che, nonostante Loach avesse tutto pianificato sulla carta, suggeriva agli attori solo alcune linee guida per ogni scena, poche battute di dialogo, e questi si lanciavano nell’azione a tal punto imbevuti dei loro personaggi che, alla fine, parole e gesti corrispondevano ampiamente a quanto scritto. Prova dell’intenso coinvolgimento emotivo degli attori è che temevano di morire, cioè che il loro personaggio lasciasse la storia, e se la produzione dava a uno di loro un biglietto di ritorno a casa, o gli procurava diversa biancheria, era certo che i proiettili fossero in procinto di dargli una morsa.

Nonostante abbia frequentato la famosa scuola cubana di San Antonio de los Baños, promossa da Gabriel García Márquez, Icíar si dichiara autodidatta, ma con occhio e orecchio molto attenti ai maestri con cui ha lavorato (Erice, Vega, Cuerda, Gutiérrez Aragón, Borau), così che, grazie alla lezione loachiana, ha dato maggiore freschezza, temperatura quotidiana, consistenza documentaristica, al suo primo racconto per il cinema, Hola, ¿estás sola?, dove era già tracciato quel determinato impegno femminista, al quale poi si è avvicinata da diverse prospettive. Predilige però il metodo forse più classico di prove e più prove prima di iniziare a girare, in modo da correggere, mettere a punto la sceneggiatura anche a partire dalle sfumature interpretative fornite dagli attori. Ma condivide con il regista inglese, che più volte ha richiamato la cruda testimonianza di Ladri di biciclette, l’ispirazione ancora valida del neorealismo italiano in termini di scelta di attori non professionisti, interpretazione naturalistica, ambientazione in luoghi reali piuttosto che in decorati, storie rappresentative e pure di salvezza dei sommersi.

El olivo

Sottotitolato Hay tierra con Alma (c’è terra con anima), El olivo scava nella memoria. Memoria ancestrale che stanno strappando a beneficio del mercato globale e omologante dove tutto viene smerciato, anche ciò che c’è di più sacro, la nostra stessa identità. Laverty ha ideato una sceneggiatura basata sul traffico di ulivi millenari per decorare giardini e centri commerciali, che ha il suo polo distributivo nei vivai a Roma, da dove vengono esportati in tutto il mondo. Attorno a quel totem mitologico ha disposto una storia di famiglia, radicata nel Maestrazgo (Levante spagnolo), che fa perno sulla speciale sintonia d’anime tra un nonno e sua nipote: umanità da rottamazione capitalista e innesto plausibile o nuova linfa generazionale nel precipitato storico?

Icíar ci ha detto, già a fine serata, che sta difendendo un paio di lungometraggi nel folle mondo dei capitali degli sponsor, e che stanno per partire le riprese di una serie di sei episodi sul conflitto generazionale, sempre più evidente, tra una crescente popolazione che invecchia e mette sotto scacco il sistema pensionistico (dice la disciplina fiscale), e i giovani che vi contribuiscono con il loro lavoro, quando ce l’hanno, senza sapere se la pensione gli spetta. La sceneggiatura, firmata ancora una volta da Laverty, scongiura una soluzione terribile, squisitamente neoliberista.

Penso alle registe donne e ricordo subito la mostra internazionale di Saragozza, che quest’anno compie 25 anni (insieme a quella di Barcellona, ​​la più antica della Spagna). Qui Icíar è altrettanto tenace, non per nulla ha fondato nel 2006 l’associazione CIMA a difesa delle professioniste del settore, ed evoca i tempi, fortunatamente superati, in cui si potevano contare sulle dita di una mano le registe spagnole (Pilar Miró, Josefina Molina, Ana Mariscal, Cecilia Bartolomé) in contrasto con l’emergere attuale di film firmati da donne. Ecco ad esempio Alcarràs di Carla Simón, premiato alla recente Berlinale e con tante concomitanze con la parabola degli “aceituneros altivos” (Miguel Hernández) che ci ha dato appuntamento oggi.

Prima di riprendere l’aereo per Edimburgo, lasciamo che Icíar e Daniel, il figlio adolescente che si gode qualche giorno senza scuola grazie alla signora Windsor e al frastuono del suo giubileo, prendano un treno per il Lago di Como. Chissà se anche in quel fiorito attrezzo alpino, da cartolina svizzera, la nostra amica troverà ancora motivi in grado di colpire il sensibile radar della sua immaginazione creativa.

José-Joaquín Beeme
Fundación del Garabato

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