FestivalTorino FF 2019

Il cinema del reale del 37° Torino Film Festival

Tff doc si conferma una delle sezioni più interessanti del Torino Film Festival, anche in questa edizione ci ha regalato la visione di film che rimarranno nella memoria, film spesso lontani geograficamente ma vicini nelle storie che raccontano.
Partiamo dal concorso internazionale che ha visto la prima italiana di un film meraviglioso: When the Persimmons Grew del regista azero Hilal Baydarov. Si tratta di un lavoro che sfugge a qualsiasi tentativo di categorizzazione, è un film che gioca solo con le regole della bellezza dell’intimità. Baydarov ci racconta di una madre che aspetta il ritorno del figlio seduta nella sua casa immersa nella campagna. Fuori scorre il tempo delle stagioni e quando il figlio arriva e i cachi sono maturi e devono essere raccolti ed essiccati. È la storia del regista e di sua madre, è la sua versione di un ritorno alle radici, che esplora il significato di “tornare a casa”, nel villaggio dove è cresciuto e dove vive la madre in solitudine. Un film che ci mostra il suo sentimento, quasi straziante, di aver abbandonato la sua casa, la sua famiglia e la terra natia. Questo luogo, questa casa gli fanno comprendere che il tempo è diverso, che il presente può per un attimo non esistere, che il tempo perduto può rivivere.

Spostiamoci in Libano per un altro film sorprendente, Khamsin di Grégoire Couvert e Grégoire Orio. Siamo ai confini con la Siria e rimbombano ancora gli echi del conflitto e si incontrano con le memorie ancora vive delle guerre civili libanesi e degli attacchi israeliani. La corruzione politica è ormai tratto preponderante di questa piccola democrazia e mentre i corpi cominciano a sollevarsi, un gruppo di musicisti venuti da orizzonti differenti imbracciano i loro strumenti e li fanno risuonare dappertutto. Inizialmente il film avrebbe dovuto essere semplicemente un documentario sulla scena musicale libanese, una sorta di backstage da affiancare alla produzione di video musicali degli Oiseaux-Tempête. Invece poi per fortuna il film è diventato qualcos’altro: seguendo il  Khamsin, il vento che dalle dune del Sahara si spinge caldo e irrefrenabile fino al vicino oriente della penisola Araba, la musica libanese ci porta a riflettere sul paese in cui si sviluppa. La musica è il noise, il rumore del post-rock, a cui i registi abbinano il “noise” del video, immagini sgranate girate in un digitale lontano dal tempo. Ne esce un film che attraverso la musica e le poche parole dei musicisti ci fa comprendere come il popolo libanese sia intrappolato e incapace di uscire da un presente troppo  complesso e irrisolto.

El silencio que queda di Amparo Garrido è un film che esce dal nostro sguardo ordinario: un giorno la regista riceve la notizia improvvisa della morte di un suo amico. In eredità le ha lasciato un articolo di giornale che parla di José Carlos Sires, un ornitologo cieco dall’età di sei anni, in grado di identificare duecento specie di uccelli. Incuriosita, intraprende un viaggio in un mondo fatto di suoni e percezioni e nel quale è importante predisporsi all’ascolto. Il film è strutturato sulla base dell’audio di whatsapp che lei e José Carlos si sono inviati in due anni e ci porta a una diversa percezione del suono e ci porta a vedere e a sentire cose che non sentiamo mai: la bellezza di uno stormo di uccelli che vola verso il cielo, il corteggiamento dei pettirossi, gli sciacalli che si avventano a mangiare quel che un pazzo gli porta ogni settimana. In definitiva ci racconta uno dei grandi paradossi di questa vita, di come una persona senza vista possa invece insegnare a vedere.

Chiudiamo con 143 rue du désert del regista algerino Hassen Ferhani, un altro film notevolissimo che ci racconta la vita di Malika, una donna di settantanni, che gestisce una specie di caffetteria in mezzo al deserto del Sahara. La sua bottega, un piccolo e bruttissimo cubo di cemento, accoglie camionisti, viaggiatori, vagabondi e sogni di un’umanità varia. La donna davanti a una tazza di tè offre un angolo di pace a tutta la gente che si ferma durante il lungo viaggio. Malika vive lì da sola, senza marito e forse senza figli, Ferhani ci racconta le sue attese e gli incontri rimanendo attento all’inaspettato.  È un film che il regista algerino ha girato da solo e probabilmente con due soldi, ma che ci fa capire come basta poco per raccontare tutto. Ferhani dialoga con la donna e con gli avventori, ci restituisce così un film magnifico che diverte e fa riflettere sulla vita. Le brevi conversazioni di Malika fanno sì che quel cubetto di cemento si affolli di tante storie, molti racconti, segreti e riflessioni politiche e si spalanchi così verso altro. Lei ha davanti il nulla del deserto ma invece guarda il mondo.

da Torino Claudio Casazza

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