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Il mio vicino Adolf

In un’abitazione sperduta nella campagna colombiana il vecchio Marek Polsky, ebreo polacco sopravvissuto all’Olocausto, passa le sue giornate prendendosi cura delle sue rose nere, eredità della madre scomparsa nei campi insieme a tutto il resto della famiglia. L’apparente anonima tranquillità in cui vive viene minacciata dall’arrivo di un crucco tedesco che va ad occupare una villa separata dalla sua proprietà da una staccionata in legno. Negli occhi azzurro ghiaccio del nuovo arrivato, il signor Herzog, Polsky pensa di riconoscere il Führer Adolf Hitler, incrociato a metà degli anni 30 in un torneo di scacchi. Sembra essere la classica proiezione visionaria causata dal trauma della deportazione e della perdita dei cari che ha caratterizzato molti reduci, ma alcuni elementi sembrano dare ragione a Polsky che, per dimostrare la sua sconcertante verità, inizia a spiare il vicino con l’intento di accumulare indizi sufficienti che possano incastarlo.

Siamo nel 1960, l’anno in cui in Argentina il Mossad cattura un altro Adolf, Eichmann, in Sud America sotto falso nome, come tanti nazisti nel dopoguerra, per processarlo in Israele e condannarlo per i crimini commessi (nel 2015 due film, Lo Stato contro Fritz Bauer e The Eichmann Show, ne hanno raccontato i risvolti politici e mediatici, nonché l’impatto psicologico sui tedeschi). Questo pezzo di storia entra come una spina dolorosa nel corpo del film di Leon Prudovsky, premessa indispensabile alla vicenda di conflittuale vicinato tra Marek e Herzog. Chiaramente lo spunto narrativo è un pretesto paradossale che non nasconde l’intenzione di costruire su diversi registri, dal comico al drammatico, una lettura dei disturbi post-traumatici sui sopravvissuti ai campi di sterminio, ma anche, cosa ben più ardua, di osservare gli effetti della Storia su chi l’ha subita e ha la possibilità di una vendetta riparativa.
Quella di Prudovsky è un’operazione rischiosa, condotta in equilibrio su un filo sottile, come un funambolo sul vuoto, sfidando le correnti dell’immaginario novecentesco che raramente ha raccontato l’Olocausto (o le sue conseguenze) con il gergo della commedia e che, quando lo ha fatto, si è affidato all’ironia yiddish.
E in effetti lo spirito yiddish non è estraneo all’opera di Prudovsky; fa capolino di tanto in tanto per attenuare l’oscura ossessione di Marek, per ammorbidire le spigolature del conflitto tra i due personaggi, per schiarire con sprazzi di ironia le rispettive profonde tenebre in cui vivono dalla fine del conflitto.

Supportato da due attori in stato di grazia, lo scozzese David Hayman nella parte di Marek e Udo Kier in quella di Herzog, Il mio vicino Adolf lavora dunque sui contrasti inizialmente marcati tra due personaggi che dovrebbero essere agli antipodi ma che gradualmente rendono permeabile il confine che li separa. La staccionata in legno che delimita le proprietà diventa una barriera simbolica che dovrebbe manicheisticamente dividere le ragioni dei giusti da quelle dei carnefici, ma che invece si lascia penetrare con disarmante facilità: se sin da subito il confine viene spostato, secondo piano catastale, per annettere un metro di terra di Marek (quella con i roseti), atto più dimostrativo che utilitaristico, dal momento che a Herzog non serve un giardino più grande, la mobilità degli elementi verticali della staccionata è presa in prestito dal cinema slapstik e sono pretesto per una serie di gag comici, che però definiscono in superficie l’identità dei due personaggi: nel ’60 in piena campagna colombiana, un tedesco e un ebreo polacco vicini di casa non possono che essere storicamente che un abusante e un abusato, come a ristabilire basicamente le gerarchie di soprafazione in tempo di guerra. Del resto uno arriva dalla zona ai confini della realtà più allucinante del 900, l’altro (probabilmente) dalle stanze in cui quella stessa zona è stata concepita. Per Marek dunque si tratta di fare di quell’al di là uno spazio da invadere per fare i conti con il nemico storico. Con la sua macchina fotografica, getta lo sguardo per mezzo di una focale lunga, con un intento del tutto simile a quello di James Stewart in La finestra sul cortile: spiare per smascherare, per cercare il dettaglio chiarificatore o che avvalori una tesi. E la tesi di Marek è che Herzog sia Hitler e, per questo, scandaglia testi che ne descrissero la personalità: pittore dilettante, mancino, astemio, amante dei pastori tedeschi, burbero e irritabile.

Invece lentamente le certezze si sgretolano davanti alla complessità delle cose. Leon Prudovsky via via cuce nel racconto sottotracce che dalla vendetta compensatoria e dal risarcimento individuale rinviano al dolore collettivo, all’impossibilità di elaboralro definitivamente, al senso di colpa di chi è sopravvissuto (da ambo le parti, verrebbe da dire), un senso di colpa che qui si riverbera – ed è elemento di assoluto interesse – nella compassione che si può provare per un nemico giurato, ancora prima di soppesarne ipotetiche colpe. E ancora quella straniante sensazione di essere oltreconfine e ritrovarsi più vicini di quanto si sospetti a chi si crede lontano, lontanissimo.

Vera Mandusich

Il mio vicino Adolf

Regia: Leon Prudovsky. Sceneggiatura: Dmitry Malinsky, Leonid Prudovsky. Fotografia: Radek Ladczuk. Montaggio: Hervé Schneid. Interpreti: David Hayman, Udo Kier, Olivia Silhavy, Danharry Colorado, Jaime Correa. Origine: Israele/Polonia/Colombia, 2022. Durata: 96′.

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