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Kim Ki-duk, cinema fino alla morte

“Entra, è un coreano”. Anno 2000, Lido di Venezia, la mia prima volta al festival da accreditato per il bimestrale Il Ragazzo selvaggio. Non avevo in programma Seom – L’isola di Kim Ki-duk, sulla guida alle proiezioni avevo crocettato diversi film tra concorso e sezioni collaterali, L’isola non era tra questi. Non ricordo chi mi diede la spinta quel pomeriggio, non ricordo nemmeno la sala. Invece ricordo perfettamente di aver percorso come un ubriaco emotivo la distanza tra repulsione ed eccitazione più volte, in entrambi i sensi di marcia. Mi aveva preso letteralmente le viscere quella storia di prostitute, di ami da pesca, di casette galleggianti e d’amore disperato. Forse l’impero dei sensi di Ōshima mi aveva turbato in egual misura, ma molti anni prima, appena ragazzo. L’anno dopo, sempre al lido, misi in cima alla lista Indirizzo sconosciuto. Da quel momento Kim Ki-duk divenne un buon motivo per farsi un giro nei festival, per recuperare poi i precedenti, grazie a Enrico Ghezzi, Crocodile, in seguito – non vorrei sbagliare – su Tele+ (prima della chiusura) Wild Animals e Birdcage Inn, sicuramente una decina di anni fa in retrospettiva allo Spazio Oberdan a Milano.
La prima metà degli zero furono di una prolificità urgente: film pulsionali, audaci, violenti nei temi, popolati da donne e uomini disperati, distruttivi e autodistruttivi bad guys, in cerca di occasioni per disfarsi di un esoterico male di vivere, di quella certa pietra pesante che grava su spalle e cuore dalla nascita e che porta affanni e inganni. Non c’è un personaggio che non cali sullo schermo una storia di un esilio, sociale o affettivo, una ferita aperta che va rimarginata anche con la violenza.
In Europa i festival che contano ospitano Kim Ki-duk in cartellone, e lo consacrano tra i grandi registi contemporanei: premi a San Sebastian e Locarno con Primavera. estate, autunno, inverno… ancora primavera; miglior regia alla Berlinale nel 2004 per La samaritana, lo stesso anno Leone d’Argento (un po’ stretto) a Venezia con il capolavoro Ferro 3. Il Leone d’Oro arriverà nel 2012 con Pietà, l’anno prima il film sulla crisi creativa che lo aveva disorientato dopo il 2008, ovvero Arirang, a Cannas aveva stregato la giuria della sezione Un Certain Regard.
Ma è un decennio in cui tutta una generazione di registi coreani porta un cinema originale nell’estetica e rispetto anche agli standard narrativi europei: Lee Chang-dong, Park Chan-wook, il poco più giovane Bong Joon-hu, con Kim, mescolano cruda brutalità e lirismo in opere che, sovente, non nascondono una spessa filigrana politica, tanto da essere – soprattutto Kim – detestati in patria.

Ferro 3 – La casa vuota

Coreano del sud, prima di imbracciare la macchina da presa da autodidatta, Kim Ki-duk è operaio, marinaio, predicatore mancato e attanagliato da una profonda crisi religiosa. In fuga a Parigi, scrive storie, dipinge quadri, vende le tele in perfetto schema bohemien. Pittura, scrittura, cinema. Il passaggio al cinema è un salto mortale, ma gli consente di mettere in scena, film dopo film, personaggi estratti dall’asfalto delle metropoli o dalle ombre di luoghi marginali, ma con trovate visive e una cura compositiva che guarda all’occhio e all’inconscio. Non c’è oggetto messo in quadro che non venga ricalibrato nei suoi significati scontati o simbolici, ed è curioso in un cinema che aggiunge per togliere, che riempie per farci guardare ai vuoti, che stilizza per farci sentire la carne, che sfuoca fino all’astrazione pur abbracciando istanze sociali e lanciando grida dolorose in paesaggi ovattati o nel silenzio di una casa galleggiante che si fa ombelico del mondo. Lui stesso aveva camminato su questo confine contraddittorio in Arirang, cronaca di resurrezione dal fango dopo un trauma personale consumato su un set, incastrato in una trama spietata in cui l’espiazione passava dall’isolamento.
L’ultimo film distribuito in Italia, forse il più esplicitamente politico, è già lontano: Il prigioniero coreano. Adesso il Covid ha portato via Kim Ki-duk in Lettonia. Questa è la notizia. Ma sembra più semplice pensare che sia la pagina di una sceneggiatura svolazzante perduta a Riga dal regista mentre cercava casa. Di lui si erano perse notizie dal 20 novembre, recita il dispaccio. Aspettiamo però, non sia mai che ci racconti cosa è successo davvero nel prossimo film.

Alessandro Leone

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