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Louisiana (The Other Side)

Era il quarto film italiano al 68° Festival di Cannes, in gara nel concorso Un Certain Regard. Louisiana (The Other Side) di Roberto Minervini apre probabilmente un nuovo territorio di esplorazione per il regista marchigiano, che dopo gli studi in Economia e Commercio ha preferito cercare fortuna louisianaall’estero, incontrando il cinema negli Stati Uniti solo in seconda battuta, dopo aver sognato scenari di guerra come fotoreporter.
Facciamo subito chiarezza su un paio di aspetti per nulla secondari. Il primo semplice semplice: Louisiana è un film italiano come lo è un oriundo che gioca in Nazionale. Prodotto da Okta Film di Paolo Benzi e la francese Agat Films & Cie, in coproduzione con ARTE France Cinéma, il quarto lavoro di Minervini è interamente girato in Louisiana del Nord, come i precedenti The Passage, Low Tide e Stop the Pounding Heart erano immersi nelle profondità del Texas.
Il secondo aspetto è un po’ più complesso e potremmo definirlo fattore-doc. Considerando come la definizione documentario – nell’accezione condivisa dalla stragrande maggioranza degli spettatori televisivi e cinematografici – calzi a pennello nei corpi filmici di prodotti divulgativi della National Geographic, nel reportage o nell’inchiesta, generi supportati da voce narrante e interviste, il documentario è da sempre terreno di sperimentazione linguistica, generando spesso ibridi che cercano nuove etichette (di cui pare non si possa fare a meno) che permettano di decifrarne con trasparenza le istanze narranti e gli oggetti narrati. Cinema del reale può bastare?
Louisiana, ad esempio. Due terzi di film in prossimità di Mark Kelley, della fidanzata Lisa e del loro entourage disastrato, tutti più o meno consumati dalle droghe e vittime della recessione; l’ultimo terzo invece focalizzato su una comunità di paramilitari antigovernativi fino al midollo, convinti sostenitori del diritto all’autodifesa e della necessità di dover rispondere con il fuoco ad ogni possibile minaccia che mini il nucleo fondativo dell’America: la famiglia. Tossici e fanatici, accomunati dalla stessa rabbia, dalla disillusione verso le istituzioni, dalla sensazione di essere stati dimenticati; misura di quella frazione debole di società statunitense dove l’individuo, parcellizzato, ha perso il contatto con una collettività solidale, la cui risposta è la narcosi da stupefacenti o l’adesione louisiana_radunocameratesca a gruppuscoli armati fino ai denti, che non aspettano altro di ribaltare la bugia liberale dell’amministrazione Obama.
Minervini, come già nei film precedenti, racconta azzerando quasi lo scarto tra autore e soggetto, immergendosi nel contesto melmoso e rimanendone anche impantanato, in una partecipazione che cerca la distanza ma che inevitabilmente produce un cortocircuito tra reale e simulato. Non perché il regista metta necessariamente in scena alcuni passaggi narrativi; piuttosto perché l’approccio e il metodo (troupe leggera e apparati cinematografici praticamente ridotti a zero) sono finalizzati a creare una familiarità tale con luoghi e persone, al fine di coglierne la spontaneità e di rendere invisibile il cine-cchio, da generare a tratti un rovesciamento, dove i protagonisti diventano personaggi e dettano la trama del racconto, mettendosi in scena con naturalezza in quello che, se non è pornografia, diventa uno snuff-movie. L’iper-realtà di un tossico che costantemente fuma, si buca, inietta eroina nei seni della compagna o nel corpo gravido di una spogliarellista che si esibisce davanti a quattro cowboy nostalgici, cosa genera se non la sensazione di assistere ad una lenta morte in presa diretta di un intero corpo sociale. Il significante visivo dell’ago che affonda nella carne, perde di senso nella reiterazione che dovrebbe alzare in “chiave informativa” il livello del disgusto. Mentre la disperazione rimane dietro lo schermo, non c’è più nulla da immaginare, cosicché occhio e cervello codificano gli stessi significati. Le scene di sesso e l’affetto vero (o a questo punto splendidamente simulato dai protagonisti) generano forti dubbi di autenticità. Chiaramente non sarebbe così se sapessimo di essere di fronte a un film a soggetto, ma è il rischio che si corre in questo genere di operazioni, pure interessanti e che giustamente vogliono smarcarsi da qualsiasi definizione di genere, per l’appunto. Non cambia la percezione che abbiamo del midwest, ma la perdita di nitidezza del reale rischia di far saltare il tavolo da gioco.
Minervini, se ancora in Stop the Pounding Heart sembrava avere il controllo della narrazione, anche sul finale, quando la macchina da presa si infilava nelle maglie più intime del rapporto madre/figlia (in cerca dell’emozione di cui il film necessitava), questa volta pare registrare il proprio naufragio, almeno fino a louisiana_fuciliquando spezza senza preavviso il racconto familiare per seguire in maniera più distaccata e, quindi oggettiva, la preparazione alla guerra dei fanatici in mimetica, riprendendo il timone della propria imbarcazione.
Lo spiega lui: “dobbiamo assumere le sembianze di cineasti amatoriali, come se stessimo realizzando un home-video. Questo mi permette di farmi da parte come autore, come cineasta onnisciente (…) Si gira per almeno venti minuti ininterrottamente, proprio perché quando si lavora con dei ciak così lunghi, la relazione tra me e i personaggi passa in secondo piano e si finisce per essere invisibili. Alla fine il farsi da parte implica anche la perdita di controllo sull’esito delle riprese, si tratta di un passaggio del testimone quasi totale da parte mia ai soggetti dei film”. Equivale a un microfono strappato di mano al conduttore, passando dall’ascolto di un’intuizione di mondo che cerca riscontro (il film d’autore), all’ascolto diretto di chi abita quel mondo, gridato, senza filtri, pulsionale, magari sboccato, tanto quando dimentica di essere confinato nel campo di ripresa di un obiettivo cinematografico, tanto quando consapevolmente ne coglie le opportunità comunicative. Per questo rimane inciso nella memoria il finale, coup de théâtre, quando un manipolo di pseudo soldati scarica proiettili di kalashnikov su una vecchia berlina americana, simbolo di tutto ciò che detestano, fino a che un colpo di fucile, quasi fuori campo, con millimetrica precisione la fa saltare in aria, riducendola a una carcassa fumante su cui accanirsi, ultima immagine che inscatola perfettamente il film e di cui poco ci importa (finalmente) quanto sia stata scritta o afferrata per caso.

Alessandro Leone

Louisiana (The Other Side)

Regia: Roberto Minervini. Sceneggiatura: Roberto Minervini, Denise Ping Lee. Fotografia: Diego Romero Suarez-Llanos. Montaggio: Marie-Hélène Dozo. Origine: Francia/Italia, 2015. Durata: 92′.

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