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L’ufficiale e la spia

lufficiale-e-la-spia-l-ufficiale-e-la-spia-_3Parigi, 1895: tra le luci abbaglianti dei café chantant si fa strada silenziosamente il germe di uno sciovinismo destinato a dominare la prima metà del Novecento. Alfred Dreyfus (Louis Garrel), capitano ebreo francese ingiustamente accusato di alto tradimento e spionaggio ai danni dell’esercito, ne è la prima vittima: se è stato accusato e confinato in una remota isola della Guyana francese, e lo è stato senza regolare processo, senza prove sufficienti e senza diritto a difendersi, è innanzitutto per il suo essere ebreo. E quindi, in quanto ebreo, facilmente sacrificabile, per la salute e la stabilità politica della nazione.
Roman Polanski – ripercorrendo metaforicamente il proprio iter giudiziario – con L’ufficiale e la spia si fa carico di raccontare su pellicola il più famoso scandalo della Francia di fine secolo, emerso grazie alla coraggiosa iniziativa di George Picquart (Jean Dujardin), capo dell’ufficio informazioni dello stato maggiore, e al celebre J’accuse del giornalista e scrittore Émile Zola (François Damiens).
Nonostante l’argomento si presti per natura, e a maggior ragione nell’attuale contesto storico-politico, all’accesso retorico, Polanski riesce a cavarsela egregiamente senza sentimentalismi, senza coup de théatre, senza rinunciare al proprio pessimismo antropologico: senza bisogno, insomma, di trasformare il suo film in un kolossal engagé di stampo jaccusehollywoodiano. Niente musiche grandiosamente enfatiche, niente discorsi esemplari e scrosci di applausi, niente redenzioni buoniste dell’ultimo minuto – niente di tutto ciò. L’indignazione dello spettatore viene suscitata, e per così dire accompagnata, dalla precisione storiografica, prima ancora che del regista, dello scrittore e sceneggiatore Robert Harris, che nei suoi romanzi storici ha fatto della ricostruzione maniacale e quasi allucinatoria dei fatti un tratto stilistico. Indignazione per l’affaire Dreyfus in sé, innanzitutto, ma anche per il clima culturale e politico diffuso in tutta l’Europa di inizio Novecento, in quell’Europa dei nazionalismi in cui l’ideale della grandeur francese la faceva da protagonista, nonostante la categorizzazione postbellica abbia visto la Francia passare univocamente dalla parte dei “buoni”. E questo allora dà da pensare, al di là delle etichette ex post (vincitori e vinti, liberali e illiberali), al di là delle colpevolizzazioni di comodo, ad una responsabilità storica che, nonostante tutto, resta sempre condivisa e mai unilaterale, nonostante tutto, ieri come oggi. Unica pecca, seppur sopportabile, i tratti talora macchiettistici della scenografia, quasi da fiction, a voler forse marcare il contrasto (e questa volta sì, la retorica fa capolino) tra la belle époque e il pericolo che si nasconde dietro la sua patina lucida e posticcia. Una sorta di memento mori reso attraverso non troppo discreti giochi di luci e giustapposizioni didascaliche, che porta il regista, per esempio, ad ambientare in notturna la scena del rogo di libri e giornali, a sottolineare la netta opposizione tra le luci della civilisation e le tenebre dell’inciviltà e dell’odio antisemita.


Ma in fondo non siamo davanti a un prodotto da cineclub: per essere un film da grande pubblico, da multisala, da proiettare – magari a cadenza periodica – nelle scuole e nei circoli culturali, L’ufficiale e la spia resta un film onesto, rigoroso e al tempo stesso appassionante, e in ogni caso più elegante della media dei film storici più recenti.

Monica Cristini

L’ufficiale e la spia

Regia: Roman Polanski. Sceneggiatura: Robert Harris, Roman Polanski. Fotografia: Pawel Edelman. Montaggio: Hervé De Luze. Musiche: Alexandre Desplat. Interpreti: Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric, Melvil Poupaud, Damien Bonnard, Denis Podalydès, Vincent Grass, Grégory Gadebois, Wladimir Yordanoff. Origine: Francia, 2019. Durata: 126′.

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