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“MEGLIO POCHI MA CATTIVI”. LA FIGURA DEL “VILLAIN” NELLA COSCIENZA DELLA NARRAZIONE.

La storia del Cinema, e ancor prima della letteratura e del teatro, è caratterizzata da sempre dalla contrapposizione bene-male, buoni-cattivi, amici-nemici, cow boys-indiani. Se escludiamo la figura dell’eroe tragico – la quale, peraltro, non è mai propriamente buona – il ruolo del protagonista, con i suoi connotati marcatamente edificanti e iconograficamente consolidati, rischia di dare luogo a strutture narrative eccessivamente stereotipate, che alla lunga finiscono per stancare tanto i creatori delle storie quanto il pubblico. Sebbene sia la figura del buono, infatti, a indurre maggiore empatia e immedesimazione nello spettatore, è quella del cattivo a muovere in modo vincente l’impianto del racconto, al punto che il Teatro ha voluto riservargli un titolo a sé stante, quasi onorifico: il villain.

Shylock-pacinoIl villain non è propriamente il cattivo tradizionale, non è l’avversario dichiarato, il Serse di 300, assiso al comando di un esercito nemico: è qualcosa di molto più intimo, di prossimo all’eroe, del quale può condividere lo stesso ambiente di vita o esserne addirittura il consigliere privilegiato. Il Teatro ci ha insegnato a distinguerne fondamentalmente di tre tipi: il villain classico, il villain «santo capovolto» e il villain assoluto.
Il primo è forse il meno interessante: si tratta, infatti, di un personaggio che agisce ancora in evidente, diretta concorrenza con il protagonista, magari perché ne desidera la donna, il potere, il denaro o semplicemente perché spinto da brama di rivalsa o da invidia. Il carisma e la sagacia di questo cattivo giungono non di rado a ispirare fascino nell’uditorio, se non addirittura simpatia, rubando letteralmente la scena al resto dei personaggi. Il caso di Hannibal Lecter è paradigmatico. Un certo favore, tuttavia, può essere indotto anche da ruoli apparentemente meno gradevoli, come gli shakespeariani Shylock e Riccardo III, di cui si è portati non solo a giustificare il desiderio di rivalsa per la loro condizione di svantaggio fisico e sociale, e per le relative discriminazioni, ma si è indotti persino da ammirarne le gesta crudeli per la perversa capacità strategica con cui portano a termine i loro piani e la straordinaria abilità retorica.

Il rischio in cui incorrono questi modelli tuttavia, è di originare contrapposizioni troppo nette, che, in molti casi, finiscono per produrre protagonismi fuori controllo, e trasformare il cattivo in eroe positivo.
Il villain «santo capovolto» è certamente di un’altra pasta. L’epiteto è stato coniato del grande poeta e critico teatrale Wystan Hugh Auden, appositamente per il personaggio di Iago, dell’Otello di Shakespeare. Iago è, infatti, un cattivo del tutto anomalo, che non agisce per invidia, né per sottrarre il potere al proprio padrone e neppure per concupire la bella Desdemona. The HitcherLa sua raffinata cattiveria è del tutto gratuita, esercitata senza un vero fine pratico, senza la giustificazione di un episodio pregresso, ma solo per il piacere di causare la rovina del Moro. Cattivi di questo tipo sono assai difficili da incontrare, tanto nel Teatro quanto nel Cinema. Neppure John Ryder di The Hitcher – La lunga strada della paura, interpretato da Rutger Hauer, o i vari serial killer e creature para-demoniache dei film horror possono rientrare in questa categoria. Per essere autenticamente gratuita, infatti, la cattiveria, come la bontà, richiede un certo grado di adesione e consapevolezza, di cui né uno psicopatico né uno zombie possono disporre. Dalla tipologia sono escluse altresì figure sinistre come il reverendo Powell de La morte corre sul fiume o Max Cady de Il promontorio della paura i quali, quantunque per il modo assurdamente caparbio con cui tormentano le loro vittime possano far pensare a una santità capovolta, obbediscono ancora a sentimenti di cupidigia e vendetta, a ragioni cioè squisitamente egoistiche, che in sé contengono ancora il germe della bontà.
Nel XVII canto del Purgatorio, infatti, Dante scrive:

«Or, perché mai non può da la salute
amor del suo subietto volger viso,
da l’odio proprio son le cose tute»

L’egoismo, proprio perché “bene” rivolto a se stessi, rappresenta un timido riflesso di quell’amore assoluto che, secondo la teologia aristotelico-tomista, è motore d’ogni cosa e, in che quanto tale, offre in ogni momento all’uomo la possibilità di convertirsi e risalire verso il bene divino, mediante gradi intermedi di bontà di cui l’affezione egoistica è il primo gradino.
Soltanto il villain assoluto sembra superare questi confini ontologici. Mi riferisco a Don Giovanni di Tirso di Molina, L'occhio del Diavoloun personaggio che neppure il Faust di Marlowe e il Maldoror di Lautrément possono eguagliare in termini di malvagità, non tanto per la crudeltà in sé delle azioni compiute, quanto per la privazione di una qualsivoglia giustificazione materiale e spirituale alla base del suo comportamento. Don Juan, infatti, consuma senza godere, agisce senza strategia, ironizza senza stile, in un crescendo plebeo di crimini che raggiunge il culmine nell’aperto dileggio nei confronti delle morte e della punizione divina che lo attende. Se si serve del vecchio padre o del prestigio della propria casata per farla franca, è solo come vigliacco rimedio per uscire da situazioni di pericolo incombente. Egli si immerge nel dolore che provoca agli altri, fino al completo annullamento di sé. Nemmeno Satana è asservito al male al punto di autodistruggersi.
Ne L’occhio del Diavolo, Bergman sembra intuire la portata di questa cattiveria assoluta. Il film si apre all’inferno, con Belzebù che incarica Don Giovanni di tornare sulla terra per sedurre una giovane timorata di Dio, la cui verginità provoca al Demonio un fastidioso orzaiolo. In cambio del servigio, don Juan riceve la garanzia di una cospicua riduzione della pena. Risalito tra i vivi, il grande seduttore mette in gioco tutto il proprio fascino, ma accortosi della purezza della vittima, decide di non portare a termine il compito assegnatogli. Mi piace pensare che Bergman, attraverso il gesto insolitamente altruistico di don Juan, abbia voluto tutelare la propensione autodistruttiva del Burlador di Molina, mettendo in risalto, nella caduta di stile finale della fanciulla risparmiata, la contraddittorietà insita in ogni attribuzione di significato di «bene» e «male», che nel regista svedese si realizza spesso nella descrizione delle perverse dinamiche amorose e matrimoniali. Don Giovanni pare così essere necessariamente un opposto, un diverso da…
Il cattivo, in qualsiasi forma lo si rappresenti, non è che un disperato sforzo apollineo teso a dare concretezza e confini tangibili a qualcosa di emotivamente sfuggente. Vi sono registi, non a caso, che hanno intenzionalmente cercato di superare tali principi d’individuazione, divertendosi a suscitare nello spettatore continue crisi di attribuzione di significato. Captain SpauldingSi pensi soltanto a Rob Zombie e alla diabolica famiglia assassina de La casa dei 100 corpi o La casa del Diavolo. Pur riproponendo alcuni cliché di genere, modello Non aprite quella porta o La Casa, Rob Zombie esce completamente dalla logica degli horror tradizionali. Buoni e cattivi sono da lui rappresentati con dinamiche tali da ispirare alternativamente simpatia e antipatia, inducendo il pubblico a parteggiare a tratti per il carnefice, contro la stessa vittima. Agli assassini è riservato addirittura un finale eroico alla Bonnie and Clyde. Più che una critica sociale, Rob Zombie mette in scena l’ambiguità emotiva che si cela sotto il velo rassicurante della coscienza, così come aveva già fatto Buñuel negli anni ’20 con Un chien andalou, rappresentando il sottile confine che separa il sentimento d’amore dalla violenza fisica più efferata.

Il cattivo è, dunque, un’ipotesi virtuosa, una cifra binaria su cui la coscienza costruisce la propria narrazione di eventi possibili, proiettandosi verso il futuro e l’azione. Se è vero, dunque, che «chi trova un amico trova un tesoro», è ancor più vero che chi trova un nemico trova una storia, ossia un «Io» che genera se stesso raccontandosi, precariamente in bilico tra i marosi febbrili del caos neurale.

Manuel Farina

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