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OZU, il più grande dei grandi e l’amore per le piccole cose

In questo momento storico assai delicato, ognuno di noi può fare la propria parte stando semplicemente a casa. Questa è la frase che mi sto ripetendo come un disco rotto da un mese oramai, il “semplicemente” va via via sgretolandosi, perché siamo onesti, non è semplice. Con il passare dei giorni ho scoperto sfumature di umore e pensieri mai così contrastanti, come se questa quarantena fosse una grossa tela, sempre più grande, densa di colori mai neanche immaginati. Si è costretti a passare tanto, forse troppo, tempo con se stessi; convivere con i propri demoni interiori dovendoci stringere necessariamente in amicizia non è per niente facile, ed è anche per questo motivo che personalmente cerco conforto e compagnia nell’ossessiva visione di film e serie tv. Non che questo sia necessariamente sano, sia chiaro, ma volgere lo sguardo ai colori che ora percepisco irraggiungibili, quelli dell’estremo oriente, mi regala dei sospiri di sollievo e speranza.

Accogliendo calorosamente l’iniziativa proposta da MyMovies in collaborazione con il Far East Film Festival ho piacevolmente approfittato della rassegna gratuita su Yasujirō Ozu riempiendomi, dunque, gli occhi e il cuore di infinita bellezza. Le opere presentate sono quelle distribuite dalla CG Entertainment e attualmente visionabili anche sul sito, ovvero, i pilastri portanti dell’intera poetica del regista nipponico: Viaggio a Tokyo (1953), Tarda primavera (1949), Fiori d’equinozio (1958), Buon giorno (1959) e Tardo autunno (1960), Il gusto del sakè (1962).
Nel mio immaginario Yasujirō Ozu è sempre stato una divinità più che un regista, irraggiungibile e comprensibile solo a pochi eletti; in realtà mi sono resa conto, visione dopo visione, di quanto sia stato estremamente contemporaneo, forse uno dei registi più vicini all’uomo moderno, grazie alla sua rappresentazione del quotidiano nei più piccoli gesti e pensieri. Uno sguardo delicato e attento alle fragilità e sfaccettature dell’essere umano, che si percepisce anche grazie alla totale assenza di movimenti di camera, posizionata sempre ad altezza di un uomo seduto sul tatami, segno distintivo del regista.

Non abbiamo scelta, Yasujirō Ozu in questo modo ci obbliga a guardare dritto negli occhi i suoi personaggi, a percepirne le profondità, a scrutare con curiosità le loro case, il loro quotidiano e ad assaporarne le storie che sono storie di famiglia, tutto sommato semplici e lineari, da neorealismo. Non altrettanto semplici sono i temi esplorati: la vita quotidiana, la complessità del rapporto tra genitori e figli, più e più volte presentato con cura minuziosa e delicatezza, la difficoltà nell’accettare il cambiamento del ruolo dell’essere umano all’interno della società, la disgregazione delle unità familiari, la “minaccia” percepita dai più anziani degli usi e costumi provenienti dall’Occidente, nonché l’incomunicabilità dell’uomo moderno e l’impotenza dinnanzi allo scorrere inesorabile del tempo.

Proprio su quest’ultimo tema si apre la rassegna, con quello che viene considerato uno dei film più importanti della storia del cinema, oltre che il capolavoro assoluto del regista: Viaggio a Tokyo.
I coniugi Hirayama, ormai anziani, decidono di recarsi a Tokyo per fare visita ai propri figli, il padre Shukishi è interpretato da colui che è considerato l’alter ego di Ozu, ovvero Chishū Ryū, il “resident dei film di Ozu”, presente in quasi tutti i suoi film. Una volta giunta a Tokyo la coppia si scontra con una dura e amara realtà: i figli si rivelano sempre troppo impegnati per trascorrere del tempo con i genitori, tanto da volerli spedire alle terme. L’unico personaggio che dedica loro del tempo in maniera amorevole è la nuora ormai vedova, Noriko, interpretata da una sublime Satsuko Hara, uno dei sorrisi più belli del Sol Levante, amatissima sia da Ozu che da Kurosawa. Il senso del dovere di prendersi cura dei propri genitori è uno dei valori più importanti, ma la società sta cambiando, la concezione del tempo stesso è cambiata, negli occhi di Chishū Ryū se ne legge l’amara delusione e al tempo stesso accettazione, nonostante i timidi sorrisi. Ma d’altronde “la vita è strana. Tu sei stata molto più gentile dei nostri stessi figli, te ne sono grato” – confida Shukishi a Noriko.

I timidi sorrisi di Chishū Ryū li troviamo anche in Tarda primavera, girato quattro anni prima di Viaggio a Tokyo e che ci presenta come personaggi principali Shukuchi (ancora Ryū) padre e vedovo della giovane e nubile Noriko (ancora Satsuko Hara). Ozu presenta un’altra finestra sulle relazioni familiari, in questo caso Noriko non vuole lasciare la vita tranquilla che trascorre con il padre, nonostante sia in età da marito; dopo le pressioni di Masa, zia della giovane, Shukuchi decide di architettare una farsa per spingere la figlia a sposarsi, fingerà lui stesso di volersi risposare con una donna più giovane. In questa opera troviamo una delle scene più famose della storia del cinema: la sequenza in cui Shukuchi insegue la figlia Noriko per parlarle, alla fine non riuscendo, in tutte le stanze della casa; la camera rimane ferma e immobile e il montaggio, ad opera del regista stesso, ci consente di assistere ad una carrellata di immagini; l’istinto naturale è quello di muovere lo sguardo alla ricerca della prossima inquadratura. Questo succede perché Ozu ha stracciato il libro di grammatica del montaggio, ha costruito un linguaggio tutto suo e ci educa, visione dopo visione, a soffermarci sui particolari, sia dell’ambiente circostante che delle minime espressioni dei suoi personaggi. Ozu ci rende più sensibili nei confronti del cinema stesso, perché l’empatia si costruisce, come d’altronde la felicità: “la felicità non è un dono, ma qualcosa che bisogna creare” – confessa Shukuchi a Noriko.

La rassegna prosegue con Fiori d’equinozio (1958), prima pellicola a colori del regista e che rappresenta una vera e propria rivoluzione stilistica, non solo a livello di fotografia, poiché per dare rilievo agli ambienti – che ricordiamo essere non solo parte della scenografia, bensì parte del senso ultimo del film stesso – Ozu ricorre alla pellicola Agfa per esaltare la gamma dei rossi. La struttura delle inquadrature rimane fondamentalmente la stessa, ma a partire da Fiori d’equinozio quello che muta leggermente è la predominanza dei personaggi nello schema narrativo, non più riservato agli “anziani”, bensì alle nuove generazioni con i loro pensieri e il conseguente scontro sempre più acceso con un Giappone vecchio stampo. Immagino, dunque, Ozu spostare l’ago di una bilancia in fragile equilibrio, proprio come le dinamiche familiari a lui care. Wataru Hirayama, interpretato magistralmente da un altro “resident di Ozu”, Shin Saburi, oltre ad essere un affermato dirigente di azienda, è anche un punto di riferimento per amici e conoscenti che puntualmente si rivolgono a lui per discutere di questioni personali e chiedere consigli. Si mostra curioso del progresso e dei cambiamenti che ne derivano, come l’abolizione sempre più frequente dell’uso dei matrimoni combinati. Peccato che una volta che Masahiko Taniguchi (Keiji Sada) gli chieda la mano di sua figlia, egli si opponga veracemente al matrimonio, palesando l’incoerenza dell’essere umano, ma d’altronde “sono tutti incoerenti, eccetto gli dei! Il mondo è pieno di contraddizioni. Un filosofo ha detto che la vita è un susseguirsi di contraddizioni.”

Nelle ultime tre opere proposte dalla rassegna, ovvero, Il gusto del sakè, Buon giorno e Tardo Autunno i temi cari al regista vengono proposti nuovamente, ma con un taglio leggermente ironico, esplorando anche il genere della commedia, una commedia intelligente, studiata e mai scontata che lascia scappare delle risate dolciamare. Ne Il gusto del sakè (1962), ultimo film del regista, viene riproposto il rapporto tra genitore e figlia, come in Tarda Primavera e Tardo Autunno, e con una ironia sofisticata viene ritratto Shohei Hirayama (Chishū Ryū) vedovo e sulla soglia della vecchiaia che, dopo aver combattuto contro se stesso e metaforicamente contro il Giappone che sta cambiando, intraprende un percorso di autocoscienza che gli permetterà di accettare il distacco dalla figlia Michiko (Shima Iwashita). In Buon giorno (1959), secondo lavoro a colori del maestro, i bambini protagonisti – ingenuamente buffi – attuano uno sciopero del silenzio come protesta nei confronti del mondo degli adulti in un Giappone che inizia a soffrire di crisi d’identità; in questa opera non solo viene analizzata intimamente l’unità familiare, ma si aggiunge quella del vicinato e tutto ciò che ne consegue: pettegolezzi, dicerie, pregiudizi e competizione. Forse l’opera più scanzonata dell’intera rassegna: si percepisce quanto Ozu si sia divertito a seguire le rocambolesche vicissitudini dei fratelli Hayashi, disegnando una commedia che guarda ad Occidente, pur sempre con gli occhi a mandorla; ed infine basta uno stacco di camera sui pantaloncini stesi al vento a riportare la poesia.

Satsuko Hara

Tardo Autunno (1960), il tempo passa e ormai è autunno e ritroviamo la bellissima Akiko (Setsuko Hara) vedova e madre di Ayako (Yoko Tsukasa), la vicenda analoga a Tarda Primavera analizza la difficoltà da parte dei figli di prendere le proprie strade, distaccandosi dai genitori, quasi come se Ozu volesse ricordarci, con una sottile malinconia, quanto il Giappone abbia sofferto l’abbandono di alcune tradizioni. Le pennellate cromatiche e la perfezione maniacale proposta negli ambienti, all’interno dei quali emergono giochi di linee geometriche ben definite fanno immediatamente pensare a quanto Ozu abbia influenzato autori contemporanei quali Wong Kar-way e Wes Anderson.

Attraverso piccole storie Yasujirō Ozu ci costringe a fare i conti con la complessità del quotidiano, dal quale spesso fuggiamo; per esprimermi nel vocabolario del regista: “fra gli alberi di Sakurai in autunno il tramonto è un tempo di pena e tristezza. Il guerriero si chiede cosa sia successo al mondo”.
Il cinema di Ozu è ripetizione e sottrazione e come il regista stesso ha dichiarato “sono come un pittore che continua a dipingere la stessa rosa all’infinito” e, dal mio punto di vista, Ozu ci ha insegnato a guardare la stessa rosa con occhi sempre desiderosi di scoprirne nuove sfumature.

Tatiana Tascione

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