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Quel cinema in pellicola che se ne va

Giovedì 26 luglio ci ha lasciati Mario Ferrario, storico proiezionista in forza al Cinema Teatro Nuovo di Varese ben prima che l’Associazione Filmstudio 90 si avventurasse nella gestione della sala nel 2006. Spigoloso, a tratti rude, di quelli che non le mandavano a dire, non sopportava il pubblico maleducato, intendendo lo spettatore non educato al rispetto del ferrariocinema, come luogo e come spettacolo. Direttore di sala – definizione obsoleta nell’epoca dei multiplex – non accettava irriverenze che non fossero diretta conseguenza ad una risposta emotiva al film: schiamazzi e, soprattutto, cellulari accesi improvvisamente nel buio lo facevano infuriare e partiva sparato verso il molestatore con l’invito servito a lasciare la sala. Mario non era uomo da rinchiudersi in cabina fino alla fine della proiezione; i film li vedeva, se possibile, seduto in poltroncina, a maggior ragione dopo l’avvento del sistema digitale che ha reso possibile controllare a distanza il proiettore, uno dei vantaggi dell’ultima copernicana rivoluzione, in verità digerita a forza da tutti gli operatori dell’era analogica con dosi massicce di bicarbonato. Per uomini di cinema come Mario (ma potrei citare anche Piero, altro proiezionista che ha fatto la storia di Filmstudio 90) non è stato facile convincere l’occhio della qualità della proiezione dal Digital Cinema Package nonostante la nitidezza e la pulizia estetica dell’immagine, perché proprio l’eccesso di dettaglio rendeva palese la differenza con la visione naturale a cui siamo abituati. E poi c’era qualcos’altro che si perdeva con quel piccolo hard disk da connettere a sostituzione delle pesanti bobine di pellicola: la fisicità, il gesto muscolare e la precisione rituale del caricamento della pizza, l’apertura degli ingranaggi dentati, lo scioglimento della matassa grigia in materia sottile, trasparente, fragile, impressionata in fotogrammi che presi uno a uno perdevano peso e cercavano l’unica combinazione possibile affinché la lampada potesse accenderli sullo schermo. Il proiezionista come deus ex machina? Forse.
Mario si era adeguato al cambiamento pur di rimanere padrone di casa al Nuovo, aveva imparato a ragionare con un display e una pennetta digitali, si era a suo modo informatizzato velocemente, diremmo aggiornato. Geloso comunque del mestiere, che per lui coincideva con la vita, in cabina ci passava meno tempo, vuoi per gli acciacchi legati all’età, vuoi per l’assenza rumorosa del proiettore 35mm che richiedeva assistenza costante, adesso sostituito da un suono flebile di una macchina autosufficiente, quasi un fischio da emicrania, l’azzeramento di ogni possibile avventura da cabina e l’impossibilità di farne ancora racconto. Anche per questo l’ultima volta che sono salito in cabina a marzo, mi era sembrata diversa nel perimetro, ora razionale e misurabile. Come in un dopo sbornia, la qualità della percezione era cambiata: lo spazio si era sgonfiato dal groviglio caotico di verità e artefazione dei ricordi, e le storie (anche piccanti) ai confini del mito e consumate dietro il finestrino da cui partiva il fascio luminoso che conteneva il film, si confondevano adesso con un mucchietto di polvere in un angolo poco illuminato, spazzate con cura nostalgica da un’intera generazione di proiezionisti burberi e affascinati dal cinematografo.

Alessandro Leone

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